domenica 21 marzo 2010

"American Pastoral" (Pastorale americana) di Philip Roth

Per dare il benvenuto alla stagione dai mille colori e dai troppi starnuti (se non altro miei), un racconto torbido, ingarbugliato. Pieno d'interogativi e di riflessi angoscianti. Un ritratto dell'America, del suo Sogno e dei suoi incubi. Roth scrive con un flusso di pensiero potente e vorticoso come un fiume in piena.
America anni '40.
America anni '60.
America oggi.
Che lavora, sfrutta, si compiace delle sue marcescenti radici dorate, protesta, reprime, s'interroga fino al logoramento, ricorda e rimpiange, urla, esplode, impazzisce.
Un'impalcatura dalle basi di ghiaccio. Una scenografia pronta a crollare sotto un sole di movimenti furioso e cocente.
Con gli occhi dell'alter-ego di Roth, Natahan Zuckerman, entriamo a contatto con labirinti memorie la cui messa a fuoco non sempre è ottimale. Ci astraiamo, derealizzandoci, entrando nella testa dello "Svedese" e delle carogne nascoste nelle profondità della sua famiglia. Assistiamo alla sua caduta, allegorica, esistenziale, immergendoci nel nucleo pulsante e ipocrita del suo paese.
Ottimo libro, di non facile lettura. Sconsiglio una lettura superficiale o, per meglio dire, rilassata. C'è il richio di ritrovarsi smarriti. In luoghi nuovi e non previsti. Roth non ci vuol dare risposte. Ci parla fino allo sfinimento, descrivendo a tutto tondo la vita dei suoi personaggi. Vita che viene definita da uno di loro un breve periodo di tempo nel quale siamo vivi.
Lasciandoci col compito di trarre le nostre conclusioni.
Sempre che ve ne siano.

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