martedì 27 aprile 2010

La via d'uscita

Quando venerdì scorso ho trovato questo articolo sull'omonima uscita settimanale mi è venuto da ridere. Non per l'articolo e per il progetto in sè, ma per la necessità che oggi abbiamo di trasmettere questi valori che invece dovrebbero essere inseriti spontaneamente nella vita dei singoli. E' vero che ai bambini piace tanto infrangere le regole, disturbare un pò gli adulti quando sono troppo impegnati ma dovrebbero possedere un codice di base nel quale regolamentarsi. Se oggi abbiamo bisogno di incontri con pedagogisti o psicologi per insegnare ai nostri figli/nostri alunni le regole vuol dire soltanto che qualcosa sta andando per il verso sbagliato. Cosa ancora non si sà. Lavorando nel mondo della scuola e dell'educazione ne vedo davvero di tutti i colori. I bambini non solo non sanno le regole principali della buona convivenza ma pretendono anche che non ci sia da parte nostra una correzione: se lo faccio a casa lo faccio anche a scuola e tu non mi riprendi! Questo è quello che mi sento sovente ripetere da questi "bimbetti" MOLTO viziati che mangiano come piccoli orchetti, si scaccolano, sputano, fanno la pipì spesso fuori dal water, lasciano i rubinetti aperti, temperano sul pavimento etc etc e purtroppo ancora eccetera. Certo fra tutti questi qualche mosca bianca per fortuna esiste ancora ed è triste affermare che nella moltitudine e nel caos generale a fatica risaltano e sono visti come una specie di miracolo vivente che ancora avviene in certe epifaniche famiglie italiane. Non è bello generalizzare su questo argomento ma la retorica delle buone maniere imperversa lungo tutto lo stivale mentre Vignola ambisce a diventare almeno per una settimana capitale italiana dell'educazione. Così tanto per incoraggiarli un pò e poi chissà magari è contagiosa e i bambini magari ci prendono gusto. A Vignola si sono inventati anche il pagellino delle buone azioni e il bambino che riceverà più punti verrà premiato con la mitica medaglia di bambino beneducato 2010. Ora: non vorrei fare quella che trova sempre da ridire su tutto ma premiare un bambino per incentivarlo ad un dovere mi sembra una perfetta buffonata. Si può premiare i genitori che si recano al lavoro tutte le mattine? Si può offrire una medaglia alla mamma che tutte le sere prepara la cena? I nostri amati bambini hanno tanti diritti, sarebbe sacrilego ammettere il contrario, ma hanno anche qualche piccolo dovere. Le regole che vengono insegnate dovrebbero essere assorbite dal bambino senza recargli troppo stress. Se lo stressa è solo perchè a casa, nel suo micromondo, tutto funziona in modo diverso. Non esiste continuità e coerenza educativa. Questa credo sia la difficoltà maggiore di chi lavora nel mondo della scuola. Abbiamo a che fare con troppe "individualità" ovvero con contesti educativi troppo disomogenei dove non troviamo più un punto di incontro valido per tutti. Una volta un papà ci venne a dire che la figlia non doveva essere sgridata se in giardino voleva arrampicarsi sugli alberi perchè era abituata a farlo. Dare totalmente la colpa alla famiglia mi sembra eccessivo ma pretendere che il gruppo docente si faccia carico di queste mille sfumature mi sembra di un arroganza inaudita. Inventiamo allora mille rinforzi nuovi per ottenere un pò di sana collaborazione tra le due entità educative più importanti. L'antico patto è venuto meno ma non bisogna arrendersi a questo sistema che ci vuole più guardiani che non insegnanti. La scuola non è un parcheggio per bambini abituati al peggio ma il Luogo dove fare la differenza, dove alcune regole possono aiutare i bambini a crescere, a diventare grandi. Il caso di Vignola potrà essere interessante ma io preferisco il maestro che si "sporca" le mani con il lavoro, che aiuta i bambini senza illuderli che nella vita sia tutto così facile. La vita è dura e ci sono tante strade in salita, i piccoli camminatori vanno equipaggiati e preparati alla costanza che allena alle lunghe distanze, non al fiato corto delle vie d'uscita.

lunedì 26 aprile 2010

Una domenica di Monte Sole

Dopo il rannuvolamento dei giorni scorsi, la mattina del 25 aprile ha deciso di concedersi tersa e soleggiata.
Da Bologna e dintorni, persone di tutte le età, ogni anno, decidono di recarsi sulla vetta di Monte Sole insieme ad amici, figli, nipoti. Per vari motivi, ogni volta si arriva con spirito simile e differente dall'ultima. In questa ancor più motivati, viste le recenti dichiarazioni (qui, qui e se ne trovo altri li aggiungerò qui). In ogni caso è sempre piacevole carezzare i prati e i sentieri di questa parte dell'Appennino.
Questa volta arriviamo tardi, le due passate. Due poliziotti provinciali deviano il traffico. Peccato non aver portato un bordone. Troviamo un buco ai piedi delle colline, un'occhiata alla salita, zaino in spalla. Dai che si va!
Immersi nel verde, su sentieri d'asfalto, un passo dietro l'altro. Sulle orme di chi, anni addietro, seguiva diramazioni segrete, custodite da tracce nascoste. Un po' per pigrizia, un po' per emulazione, dirottiamo per un prato ripido e sdrucciolo, verso una legnaia distesa. Mobile processione a cogliere vibrazioni lontane. Il sole batte e ci scopriamo in abiti un po' troppo pesanti, pazienza. Se non altro, una volta in cima, libereremo i piedi.
Per un tratto, seguiamo la scia di ragazzi che tra bandiere, canti, inseguimenti annaspanti ad ogni possibile mezzo di passaggio, alleggeriscono il peso di ogni passo. Ostinati, li vediamo diminuire, chi sopra una moto, chi dentro ad un'auto.
Ritorna un'idea di silenzio e, dietro la curva, spunta una coppia alle prese con le insidie del percorso. Spingono una carrozzina, al cui interno, un tesoro. Meno di un mese e già pellegrin*. Dormicchia, assaporando ogni eco intorno. Altri viandanti offrono un passaggio. No, grazie, il Poggiolo non è distante. Accostati, li salutiamo con un sorriso.
Inconsapevoli d'essere così vicini come si è detto. A piedi, i punti di riferimento edulcolorano. Dopo l'ultima curva, passiamo dai freschi toni primaverili ad una luminosità dalle tinte estive. Qualche ultimo passo, un fazzoletto d'erba sufficientemente asciutto, piedi liberi di respirare terra ed erba. I panini, una volta addentati, sono i più buoni di sempre, conditi dagli aromi incontrati salendo. Sul palco, si alternano gruppi e vecchi Litfiba graditi al mixerista. Mentre offriamo la faccia a sole e vento, vediamo un capannello di persone crearsi d'improvviso. Dall'interno, le parole di Franco Fontana, per quanto a basso volume, risuonano e sovrastano, cariche di commozione. Nemmeno le sovrapposizioni censoree di chitarre distorte riescono a fermarle. Ma siam qui solo per la musica?
L'intervista finisce e il brusio circostante mi ha lasciato poche parole preziose e pesanti, molte si sono perse. Fontana ci ha parlato di sé, di quand'era staffetta, di ciò che ha visto accadere. Le guerre non finiscono mai ha detto, interrogandosi sul perché un contadino italiano debba voler uccidere un contadino di un altra nazione o ideologia. Salutandoci ci parla di un libro La staffetta, in cui coi suoi occhi assistiamo a quella parte di storia di cui é, dolentemente, stato testimone. L'idea è nata da una maestra, che alla fine di una gita scolastica, dove anche i più scalmanati si erano vestiti di silenzio e attenzione, lo pregò di non stancarsi mai di parlare.
Il libro, oltre a parlare del Fontana ragazzo, giovane staffetta partigiana, sulla scia della disciplina sportiva si fa a sua volta staffetta, testimone, per chi continuerà a correre dopo di lui.
Tornando a valle, con le note della Banda Roncati in sottofondo, ripenso alle parole di Alice Miller, alla sua convinzione nella venuta di un giorno in cui non si riusciranno a comprendere le motivazioni che portarono ad orrori simili a quelli che si scatenarono a Monte Sole. Può darsi. Ma i testimoni diretti sono sempre meno. I racconti, tra qualche anno, si faranno di seconda mano. Lo stesso libro, che ci pone dinanzi ad orribili flash di quei giorni, letto con le immagini del Fontana di oggi, con il suo sguardo ed i tremiti della sua voce impressi negli occhi, riesce a spalancare ancor di più il baratro di quei giorni. Mi chiedo se l'effetto sarà lo stesso, quando rimarranno solo documenti di quel periodo, se il revisionismo, il sottovalutismo, troveranno terreno più fertile per degradare.
Sicuramente, questi documenti saranno indispensabili per far capire l'incomprensibilità di quegli anni, per creare le condizioni capaci di portare ad affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà. Oltre alle voci passate ne serviranno di nuove, capaci di raccontare quel periodo come chi se lo trova cucito addosso.
Verso casa, con un tassello di memoria nello zaino e le sue parole di fuoco, fradice di sangue e lacrime.

Scendendo le colline, in un'improvvisata armata Brancaleone, affrontiamo distese di fango con passo leggero e risate, verso un tramonto che indica in segreto l'alba a seguire.

martedì 20 aprile 2010

...siamo lo stesso, coinvolti

Pausa pranzo.
Saltello tra un link e l'altro in attesa che l'acqua cominci a bollire e, guarda un po', mi ritrovo davanti a parole che con periodica decisione mi ronzano tra la scatola cranica e il cervelletto. Un commento di Licia Troisi all'ottimo articolo dei Wu Ming sulla questione Saviano e le recenti contraddizioni del mondo dell'editoria, che rimanda ad un suo post fresco di giornata su "Storia di un impiegato" del vecchio Faber e le interconnessioni con le tante questioni ben linkate nell'articolo sopracitato.
Storia di un impiegato... disco politico dalle tinte poetiche, che, nonostante i suoi 37 anni, ci parla di tematiche sempre più attuali. Libertà, potere, presa di coscienza... Fin dall'inizio e fino alla fine De André ci avverte: dagli avvenimenti quotidiani, che siano ingiustizie, fantasmi che non vogliamo vedere, lontananze appena immaginabili, in un modo o nell'altro ci appartengono, fanno e faranno parte di noi. Evitarli o delegarli non ci assolverà dal nostro esserne coinvolti.
Certo, é dura riuscire a creare frizioni, provare a farlo collettivamente, con la consapevolezza della propria posizione nei confronti del potere e del sistema, con un rotondo senso critico:

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni
(Nella mia ora di libertà, De André 1973)
Quest'ora di libertà non è riducibile ad un contesto esclusivamente carcerario. Quanti tipi d'ora d'aria possono esistere? De André ci saluta con parole che scorrono leggere, lasciandosi alle spalle solchi profondi e allarmanti. Quest'ultimo passaggio ogni volta mi elettrizza come uno spiffero mai domo, rimandando ostinatamente alle parole di un'altro pensautore, che ha ragionato a lungo sulla libertà e la presa di coscienza:
Un uomo affascinato da uno spazio vuoto
che va ancora popolato
(...) da chi odia il potere e i suoi eccessi
ma che apprezza un potere esercitato su se stessi
(...)
(Se ci fosse un uomo; Gaber 2003)
All'interno dell'odierno meccanismo, possiamo parlare di spazi vuoti alternativi, ancora da riempire? Possiamo sperare in un passaggio dall'individualismo collettivo ad un collettivismo individuale? Sono concetti vasti, labirintici, sdrucciolevoli, che rischiano di sfociare nello stagno del qualunquismo, se non vagliati adeguatamente.
Il tempo stringe, la pasta è da scolare.
Meglio fermarsi qua. Per ora.
Buon coinvolgimento a tutti.

domenica 18 aprile 2010

Cronache dalla periferia

L'asiatica si trascinava a fatica. Un mezzo passo dopo l'altro, evitando movimenti sgraditi alle contusioni. Trasportandosi verso casa, incapace di percepire alcunché intorno, portandosi appresso l'eco di una violenza mai immaginata. A trovarla, una sua insegnante. Lo shock nel riconoscerla non era paragonabile a quello che la ragazza doveva ancora trascrivere dalla carne alla mente.Arrivate al capannone, l'insegnante si trovò circondata da una moltitudine di piccoli sarti e tessitrici. Cazzo, come Gomorra... La ragazza sparì, risucchiata in un ondeggiare di voci incredule al suo pianto inconsolabile, scalpitanti d'apprensione verso le sue condizioni peste. Rimasero una serie di domande incomprensibili e sorrisi di circostanza. Per l’insegnante, una viscerale voglia di fumare a cui non poter porre rimedio. Finalmente una traduttrice, a mutarne l’espressione tirata. Chiarimenti veloci, spiegazioni su cosa fare l'indomani.
Fine del primo atto, nell'attesa di maggior chiarezza in una trama ancora singhiozzante.
Nelle ore d'interludio, ansia e rabbia si aggrovigliavano, lacerandole lo stomaco e tormentandone i sogni.
Finalmente l'alba. La scuola. Tanti occhi testimoni delle mani che avevano staccato brandelli di crine corvino e pelle sottostante, delle braccia che avevano spinto e strattonato, delle suole che avevano calpestato impietose e delle unghie che avevano lacerato carne e tessuti. Tante bocche a sparar fuori la propria versione. Qua e là, un assenso dell’asiatica.
Chi: Due sorelle, dodici ed undici anni. Quest'ultima, nella stessa classe dell'asiatica. Più il fratello maggiore a garantire il non intervento di terzi incomodi dotati di scampoli di senso civile.
Dove: a una fermata d'autobus, periferia di Bologna.
Movente: una presunta ingiuria scritta in un muro o forse su un computer. Poco importa.
Arrivano le attrici, altere. Giovani matrone imprigionate in un pregiudizio più forte di loro.
- Cosa dovevo fare? Cosa dovevo fare? chiede la minore con incredula impazienza al vicedirigente (i presidi e i loro secondi sono relegati ad un'età ormai arcaica e nebulosa) mentre la maggiore, lontana figlia di faraoni, si spreme lacrime titaniche a prova di un pentimento sincero. Poco importano le contusioni, le ciocche raccolte dentro una busta trasparente, puro stile CSI, dalla madre della pluricontusa e la descrizione dei fatti.
- Un litigio, certo. Cose che capitano. Macché bullismo, è grave, certamente, ma può capitare. Vedremo come punire, certo. Vedremo cosa deciderà il consiglio di classe. dichiara con mestizia al disgusto dell’insegnante, alle tre ragazze ed ai timidamente indignati genitori dell'asiatica il simulacro di vicedirigente, ormai vaccinato alla pedagogia dalle tante sconfitte affrontate nel nome del nuovo corso della scuola italiana.
La giornata prosegue. Ronzii della classe, sguardi fieri, increduli o estraniati, tentativi, più o meno maldestri o incisivi, del corpo docente di far chiarezza sull'accaduto. Tutto sembra essere risolto. Vittime e colpevoli, delineati. Di conseguenze si parlerà in seguito.
Nel terzo, breve atto di questa storiella metropolitana, entra in scena il padre delle novelle street fighters, novello deus ex machina, che, messo a conoscenza dei fatti, decide di vederci chiaro e di assicurarsi che la storia abbia la più giusta delle conclusioni. Durante l'ora d'epica, la piccola Connie C. sorta dalle sponde del Nilo viene chiamata a raggiungerlo dal vice dirigente. Rientra altera, soddisfatta. - Ha detto che vuole capire meglio, richiederle come sono andate le cose. spiega all'insegnante, il cui stomaco è stretto e pulsante quanto gli occhi dell’asiatica due giorni prima - Ma tuo padre che avrebbe detto? Scandisce, prima di andare a deflagrare le sue ragioni in vicepresidenza.
- Che così siamo pari.

sabato 17 aprile 2010

"Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé" di Alice Miller

Chiunque bazzichi le periferie della psicologia sa che uno degli ostacoli al benessere delle persone risiede nello sviluppo di un Sè vero, personale e libero d'esprimersi. La capacità di percepire ed essere in contatto con i propri bisogni più puri e vitali. In questo breve ma intenso saggio la Miller affronta molto chiaramente come questo possa o meno svilupparsi, le conseguenze di una sua precoce e prolungata frustrazione e le finalità che, secondo quest'ottica, assume la psicoterapia. Fin dalle prime pagine l'autrice ci spiega come ritenga concetti quali rinascita o cancellazione dei danni e delle ferite del passato totalmente utopici e insensati. Il passato è quello che è, ma noi siamo esseri in divenire, capaci di cicatrizzazioni sorprendenti, di grandiosi recuperi dell'integrità perduta, capaci di riconoscere e accettare appieno la nostra storia. Solo così riusciremo ad evitare di sottoporre chi ci sta intorno, figli e bambini in primis, agli stessi maltrattamenti da noi subiti in passato. A non agire attivamente ciò che è stato subito passivamente.
Nell'avanzare dei capitoli, espone l'impatto trangenerazionale, culturale e sociale di una mancata elaborazione delle sofferenze infantili. Trae i suoi esempi dalle storie dei suoi pazienti, dalla vita di scrittori ed artisti, dalla Storia stessa, indicando il mancato riconoscimento, la frustrazione dei bisogni più spontanei e irrinunciabili di neonati e bambini (sicurezza, affetto, protezione, contatto, sincerità, calore, tenerezza), per il soddisfacimento di quelli degli adulti, come radice della violenza. Parafrasandola, la repressione precoce di sentimenti naturali come come rabbia e paura porterà in futuro allo sfogo di queste forti emozioni verso i propri figli (abusi, maltrattamenti) o addirittura intere popolazioni (xenofobia, nazionalismi...).
Ma tale repressione non è da intendersi come la chiave di un ciclo perpetuo. La fiducia che la Miller ripone nelle risorse umane è grande e sincera. Accettare la verità, guardarla in faccia, imparare a conviverci, così da poter riprendere in mano la propria essenza ed cominciare ad esprimerla.
Potremo mai liberarci delle nostre illusioni?
Con questa frase la mente mi ritorna alle parole espresse poco tempo fa da Monicelli. In fondo, si ritorna sempre a dire che bisogna guardarsi dentro, capire i propri bisogni e sentimenti reali e viverli, esprimerli. Senza soccombere a quelli che ci vengono imposti. Non importa se dai genitori, dai media o da che vi si nasconde dietro.
In conclusione:
Gli individui che (...) non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità (...) saranno intelligenti, ricettivi, capaci d'immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a se stessi. Useranno il loro potere per difendersi, e non per aggredire (...) non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi del passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. (...) saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.
Forse un po'utopica, forse molto psicologese, ma mai quanto adesso si sente il bisogno di Veri Sè per far fronte all'odierni disagio nella civiltà.

100 righe


Ecco svelato il segreto della mia prolungata assenza da questo blog. In questi giorni sto preparando l'esame di didattica dell'arte per il conseguimento del Master in "Forma e storia delle arti visive". L'ennesima scusa che ho trovato per sentirmi ancora un pò studentessa e non troppo abbandonata al triste mondo del lavoro. Naturalmente tutto questo avrà un valore preciso: 3 punti in più nella sempre più satura graduatoria degli aspiranti professori che nella terza fascia sopperiscono il desiderio di poter insegnare con palliativi di questo tipo. Mentre preparo le mie fatidiche possibili risposte, rifletto sul fatto che, per i tagli che stanno attuando, arriveremo davvero a far studiare i nostri alunni con questo metodo. Si concentreranno i movimenti artistici in 100 righe di approfondimento dove in breve verrà trattato l'argomento in modo didascalico ma esaustivo. La bravura del corpo docente concilierà con questa esigenza, tutta gelminiana, di dare un taglio netto alla sostanza per un decisivo e più elegante riassunto del riassunto. Oltrepassato il periodo morettiano dello slogan "le parole sono importanti", siamo giunti a quella delle parole sottoposte a lavaggi di 90°. Gli argomenti scolastici non vengono più differenziati ma sottoposti ad un unico trattamento di restringimento che non tiene conto della diversa natura dei linguaggi. Poniamo, ad esempio, che venga posta allo studente la domanda di cosa sia il Rinascimento. E' possibile che, non molto avvezzo alla storia dell'arte, sintetizzi e liquidi il tutto con una lapidaria risposta sintetica ma sarebbe anche auspicabile poter permettere il contrario. La scuola dovrebbe prepararci a tutto, non ad una sola possibile alternativa. Studiare su Wikipedia in alcuni casi può esser di aiuto ma imparare a raccogliere materiale su fonti diverse e poi essere in grado di mettere insieme un discorso sensato mi sembra ancora un'ottima prospettiva. In questo senso possiamo giocare a questo gioco del taglio: io prima ti offro tutto in modo che tu ti faccia una buona idea sulla questione poi ti lascio il tempo di creare il tuo riassunto e non il contrario. Faccio fatica a pensare alle risposte che in poche righe contengano tutto il senso del discorso: anno di nascita, luogo, i protagonisti del movimento e le ideologie, le opere più importanti e il significato intrinseco. Se al posto del Master avessi optato per un ben più misero corso di perfezionamento sarebbero bastate 60 umili righe. In cento righe Georges Lefebvre forse saprebbe fare una cronaca dettagliata della guerra dei cento giorni, minuto per minuto, la padronanza del linguaggio permette anche di questi prodigi, ma se la stessa cosa viene richiesta a chi l'ha studiata in un bignami di storia ecco che la difficoltà è enorme. Prepariamoci al peggio, sul giornale oggi ci sono i numeri dei tagli per l'anno prossimo. Sono tagli pesanti fatti con l'accetta che non hanno nulla a che vedere con i tagli eleganti e misurati di un Fontana, ma a questo punto cosa importa, bastano solo 100 righe.
100 righe!

martedì 13 aprile 2010

"Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro" di Enrico Brizzi

Finalmente due parole.
Perlomeno, il tempo per esprimerle.
Due parole per un'opera che, dopo le tante emozioni di "Nessuno lo saprà", cattura il lettore fin dalle prime righe. Questa volta Brizzi ci porta nientemeno che sulla via francigena, sulle orme dei pellegrini. Ritroviamo i tre salutati alla fine del cammino precedente arricchiti dalla preziosa presenza del longobardo e della sua cresta singolare (...) sostenuta dall'elettricità dell'aria.
Troviamo il quartetto alle prese con una sfida dagli intenti tanto epici quanto romantici: attraversare le Alpi per il passo del Gran San Bernardo. Tra l'emozione dei nuovi venuti e la tempra rassicurante dei più rodati viandanti ci si sente subito a proprio agio. Siamo pronti ad accompagnarli per un tratto. Silente presenza postuma.
Ma fin dai primi passi, la nostra attenzione è portata a sfiorare uno zaino arancione di vecchia fattura ed il suo proprietario, Bern. Pittoresco pellegrino dotato di una personalissima religiosa ortodossia, allucinazione hoffmaniana fattasi carne, pericoloso squilibrato deciso a trasportare i propri verbi distorti per il mondo, testimone della solitudine umana...
Chi è in realtà costui?
Fino all'ultima pagina, e anche oltre, nessuno lo saprà.
Sicuramente, nelle intenzioni del quartetto e nella stessa narrazione, è come un temporale estivo. Breve e perturbante.
Per i nostri italiens dalle ginocchia stanche risulterà essere il polo principale cognitivo/emotivo della camminata, arrivando a catapultarli all'interno di un'indagine, un dramma in cui nulla è quello che sembri.
Per la narrazione è il punto di svolta, la diramazione da cui nasce una metafiction. L'occasione di mescolare realtà e finzione (?) letteraria.
Il libro è infatti presentato come un'opera di fantasia. Può essere. Sicuramente, più le pagine si accumulano e più la storia si allontana dai passi reali compiuti dai nostri intrepidi cavalcatori di sentieri. Eppure... una parte degli accadimenti si è realmente svolta (se non altro quello che ci viene concesso qui) scatenando la bestia creativa che risiede in Brizzi e dando alla luce questo splendido romanzo, in cui è contenuto molto più di quanto possa sembrare ma di cui non voglio spoilerare oltre.
La morale?
Mai fermarsi alle apparenze, come dicevamo in precedenza riguardo a certe copertine.
Bon courage, allora, alla salute di chi è in viaggio.

Habemus papam

Certe volte, in poche parole, sono sintetizzati molteplici pensieri.
Amen

sabato 10 aprile 2010

Monnalisa SuperStar ovvero L.H.O.O.Q

Reduce dalla breve pausa parigina stavo riguardando le foto che abbiamo fatto per la città e mi è venuta subito voglia di farvi vedere questa immagine. Come avrete ben capito siamo nella sala del Louvre che ospita il celeberrimo quadro di Monsieur Lèonard De Vinci, come lo chiamano da quelle parti. Una folla si accalca davanti al quadro, di misure assai modeste, che protetto da un vetro e da una transenna di legno occupa lo spazio centrale della parete. E' la Gioconda, la Star da Red carpet che attira gli obiettivi delle macchine fotografiche e dei Flash che non si dovrebbero usare. La gente si accalca per arrivare in prima fila, c'è chi sgomita per occupare un posto d'onore per mettersi in posa davanti alla Gioconda e via con la sfilata dei sorrisi smaliziati che da ogni angolo del globo ci troviamo come per magia qui proprio davanti ai nostri occhi:

arrancando nella poltiglia, incrociavamo uomini di ogni parte del mondo. Italiani a crocchi, veneti e genovesi, olandesi rubizzi, francesi, moscoviti foderati di pelliccia. E bosniaci col turbante, zingari, persiani e arabi, greci, turchi, armeni robusti. Ero ai piedi della torre di Babele, appena dopo che Iddio confuse le menti e le lingue.

I migliori sono i giapponesi, piccolini e agili, ti passano avanti che neanche te ne accorgi e poi con quelle super macchinine digitali riescono a scattare un book fotografico nel giro di una posa. Non credo a quel che vedo, dammi un pizzicotto per favore, siamo sicuri di quello che accade? E chi l'avrebbe mai detto, eppure entrando e passando per il corridoio la gente non sembrava soffermarsi molto davanti al mirabile sfumato Leonardesco. La belle ferronière, il San Giovanni Battista, La vergine delle Rocce uno accanto all'altro; in una calma apparente ho potuto osservare i quadri senza esser disturbata. Qui invece, non è possibile, la signora attira sguardi da ogni angolo e segue tutto con quel suo sguardo maliziato di chi la sa lunga. La osservo da ogni angolazione, l'effetto è straordinario, anche se non posso sostare più di tanto davanti al dipinto basta poco per convincersene: Duchamp aveva visto bene. Si, si! La Monnalisa sembra scalpitare davanti a tutte queste persone. Si rende perfettamente conto che le è stato attribuito lungo i secoli qualcosa di enorme, oltre ogni aspettativa.

mercoledì 7 aprile 2010

Il Landolfi fantastico


La scelta di soffermarmi sull'opera di Tommasi Landolfi nasce da una certa curiosità che in questi anni mi è nata nei confronti di una letteratura capace di suggestionare il mondo interiore. Non conoscevo Tommaso Landolfi, poi è arrivato l'input dal prof. Baraldi e con grande stupore mi sono avvicinata alla raffinatezza stilistica e alle ambientazioni stralunate di questo scrittore. Dandy provocatorio, stravagante, tenebroso e misantropo, aggettivi che disegnano un' aurea di eccentricità tipica di molti artisti romantici. Landolfi rappresenta, nella letteratura italiana del novecento, un caso isolato e anomalo. Oggi grazie ad una serie di convegni e studi è tornato in auge di fronte ad un certo silenzio critico e popolare. Se dovessi introdurlo con poche parole mi basterebbe dire che la sua scrittura è caratterizzata da un originale creatività dovuta in parte ad una fervida immaginazione, in parte ad un insolito caleidoscopio di figure fantastiche che costellano i suoi racconti. Le ambientazioni, spesso al limite del surreale, ci conducono in un viaggio all'interno di atmosfere particolari e spiazzanti. E' un mondo in miniatura che egli descrive con una lente di ingrandimento in grado di mostrarci elementi trasfigurati del reale. L'elemento fantastico si insinua negli angoli più remoti del quotidiano e ritornano a galla in un realismo sconvolgente che ci lascia turbamento. I personaggi dei suoi racconti hanno spesso un bisogno di evadere dalla realtà perchè non riescono ad addomesticare pienamente lo spazio. Sono uomini che vivono una vita normale e che ad un certo punto si trovano a doverla re-interpretare perchè si sentono bloccati nella realtà. Qual'è il metodo migliore per oltrepassare questo limite se non crearsi un passaggio per arrivare dall'altra parte della sponda? Il mezzo che usa Landolfi è quello della scrittura, della parola che, controllata e ben definita, lo libera dalla sua debolezza. La scrittura è una sorta di finestra per affacciarsi sull'inconscio, davanti ad una serie di elementi dal forte connotato simbolico e che ricorrono in tutta la sua opera: inquietudine esistenziale, fallimento di valori in cui credere, delicata psicologia; il tema della perdita, dello spaesamento è proprio di quel background tardoromantico e decadente tipico della sua opera. Molte pagine ci parlano di necrofilia, aspetti incestuosi e feticistici, spesso esibizionistici verso componenti corporee o sessuali, attrazione e repulsione verso un vasto repertorio di animali. Il bestiario landolfiano sembra attingere a quel repertorio iconografico che dai grilli del medioevo fantastico descritti da Baltrusaitis Jurgis arrivano alle pitture infernali e metafisiche di Bosch e Bruegel. Queste creature non vogliono annientare l'umano bensì vogliono unirsi a lui (si pensi a Gurù del racconto La pietra lunare) sono metà donne e metà animali che esercitano un fascino fatale, particolarmente legato al mondo della notte, del mistero che tutto avvolge e che affascina perchè, come ci ricorda Ernesto De Martino in Sud e Magia, "la possibilità magica di fascinare e di essere fascinato trova un terreno elettivo nella vita erotica". Landolfi gioca proprio su questi elementi. Nel 1983 Italo Calvino curò l'antologia dove dovevano venire raccolti i più importanti racconti fantastici dell'ottocento e non fece figurare alcun autore italiano. Giustificò questa sua scelta dicendo che non voleva inserirli perchè obbligato. Pochi anni dopo venne alla luce una pubblicazione in due volumi di racconti fantastici italiani a cavallo tra ottocento e novecento. Molti scrittori italiani vi trovarono collocazione: Giovanni Verga, Luigi Capuana, Antonio Fogazzaro, Italo Svevo, Luigi Pirandello, Alberto Moravia, Tommaso Landolfi ed altri ancora. L'Italia si è sempre pensato non essere un luogo particolarmente ideale per visioni "nebbiose" a causa di una solarità tipicamente mediterranea che ha creato non pochi pregiudizi attorno ad un possibile filone fantastico nostrano. Il fantastico rappresenta un genere molto difficile da definire e questo Tsvetan Todorov, quando doveva formularne una definizione, lo sapeva benissimo. Alla luce di tutto ciò credo sia interessante scoprire che in realtà in Italia abbiamo avuto degli esempi molto fortunati di questo genere letterario ma che, per svariate ragioni, sono rimasti un pò in ombra rispetto alla solita letteratura. Sarebbe bello riuscire a creare una lista di racconti ideali allo spaesamento. Ognuno potrebbe crearsi la propria. Come primo "spaesamento" consiglio Il mar delle blatte e altre storie e poi vediamo cosa esce fuori.

martedì 6 aprile 2010

"My dark places" (I miei luoghi oscuri) di James Ellroy

Una bella metafora della menta umana era stata usata da Thomas Harris in "Hannibal". Nel suo bel romanzo l'autore ci spiegava che il motivo per cui il suo psycho-fenomeno, il dottor Lecter, riuscisse a sopportare tanto a lungo la prigionia, l'isolamento e la privazione di qualsivoglia stimolo, era la ricchezza con cui aveva arredato il proprio palazzo/mente. Quest'ultimo veniva descritto come sconfinato, dotato di innumerevoli saloni ben illuminati in cui il dottore poteva girare e rimirare le grandi meraviglie contenute: dall'arte alla letteratura, dalla musica alla filosofia. Una splendida reggia in cui ripararsi e da cui trarre conforto, di preservarsi da autoimplosioni e crolli psichici.
Ecco, la metafora mente-casa è per molti versi interessante, un po'scontato forse, limitato e limitante in molti suoi aspetti ma comunque interessante. Come una casa è un luogo intimo, personale, che si arreda col tempo con tutto ciò che ci appartiene o ci è appartenuto. Può avere contenuti d'ogni tipo, preziosi, futili, colorati, dolorosi. Alcune cose stanno in bella vista, osservabili tutti i giorni (ma non per questo osservate) mentre altre , molte, vengono relegate alla soffitta, in cantina, fin uno sgabuzzino. Luoghi bui destinati a farle dimenticare in fretta, per i più vari motivi. Bene, nella casa di Ellroy, questi luoghi erano immensi, tetri e minacciosi. Pieni d'infiltrazioni e di cedimenti strutturali, pronti a far crollare l'intera costruzione. Con questo romanzo ai limiti dell' UNO (Unidentified Narrative Object) l'autore si lancia in un'autobiografia senza censure, mostrandoci come già in passato ha fatto i conti con gli ammassi informi contenuti in queste profondità e cercando di arieggiare e portare alla luce anche ciò che le prime pulizie non erano riuscite a riordinare.
L'autore, infatti, tentando d'indagare sull'omicidio della madre, compie in realtà un indagine sulla propria famiglia e su se stesso. Comincia il tutto con la ricostruzione delle indagini che quarant'anni prima non riuscirono a fare luce sul delitto. Con un collage denso di particolari ci mette davanti il caos che gli investigatori dovettero affrontare e, complici anche la riservatezza della madre sulla propria vita e l'indeterminatezza delle fonti, non riuscirono a sbrogliare. In seguito, Ellroy passa alla descrizione della propria infanzia e adolescenza. Degli anni caotici figli dell'omicidio materno (subito congelato e posto nel dimenticatoio) e dell'influenza di un padre ancorato alla tarda adolescenza. Sono anni difficili per lui. Anni di merda, che lo portarono a guardare negli occhi la pazzia. Fortunatamente, invece di trovarvi un palliativico conforto, l'autore vi trovò un enorme terrore, da cui riuscì a svicolarsi anche grazie all'irrefrenabile creatività ed ossessività verso le storie che lo ha sempre contraddistinto. Nelle seguenti due parti del romanzo, si parla del detective che l'ha aiutato nelle indagini e di come queste siano state da loro svolte.
Siamo davanti ad un'opera strana, dotata di cariche sia attrattive che repulsive. Personalmente ho fatto molta fatica a terminare la lettura. Non ne potevo più. Il libro è bello, affascinante. Pagina dopo pagina vediamo la discesa agli inferi di Ellroy e la lenta risalita. Le piccole grandi scoperte sulla propria famiglia materna e sulla madre stessa. Il tutto commuove, stordisce, appassiona, lascia increduli. Un gran viaggio tra i meandri di un'esistenza. Di più esistenze. Dimostrazione biografico-narrativa della capacità che il conoscere se stessi e la propria storia, saper convivere con essa, possa restituire l'integrità perduta (Alice Miller, qui; è curioso come libri così diversi riescano ad incontrarsi, per tempi e temi). Ma alla lunga la descrizione di ogni passaggio, di ogni ipotesi, passo avanti, passo falso, deviazione, vicolo cieco e impressione rischia di diventare sfibrante. Per me lo è stato.
Resta comunque un grande romanzo. Interessante da provare.
Intrigante aperitivo per "American Tabloid" (per quando mi ci cimenterò).
Sono contento d'averlo letto ma, al contrario di molti altri libri, sono anche contento d'averlo finito.