sabato 26 dicembre 2009

"Juliet, Naked" (Tutta un'altra musica) di Nick Hornby

A dispetto del titolo italiano, l'ultima opera di Hornby è la solita, splendida melodia a cui ci ha abituati.
La facilità con cui riesce a ricreare spaccati di vita reali, nevrosi, dubbi, solitudini, gioie ossessioni e tutte le altre sfumature e gradazioni della vita è unica. Nei suoi libri c'è una parte di noi. I suoi personaggi ci ricordano come siamo fatti. Ci fanno gioire insieme a loro. Preoccparci. Piangere. Sperare.
Inoltre, con "Juliet, Naked", viene sviluppato ed approfondito il ragionamento e la descrizione del concetto d'arte che era stato meravigliosamente riassunto nella novella "Gesù dei capezzoli" (contenuta nella raccolta "Le parole per dirlo", edito da Guanda).
Anche questa volta ci viene mostrato lo scorrere e l'intrecciarsi di diverse quotidianità. Vengono poste molte domande, senza la pretesa di dare pompose risposte, eccetto quella che la vita deve essere vissuta e colorata. Eh, che novità direte, ha scoperto l'acqua calda... posso anche essere d'accordo con questa constatazione, ma il ricordarci che è meglio immergersi in più colori, invece che nel solito grigiume, che è preferibile scontrarsi contro un muro per poi leccarsi le ferite, piuttosto che atrofizzarsi specializzandosi in apatia, per poi accorgersi che "Tho! Ho solo dei rimpianti. Anzi, neanche quelli" per quanto banali sono concetti che vanno rimarcati.
I libri di Nick Hornby sono un inno alla vita. Alle preziose rarità che può riservare. Alle intense emozioni con cui può sorprenderci. Come ho detto prima, parlano di noi. Incredibilmente bene.
Inoltre sono dotati di una scrittura incredibile. Non sono mai scontati, anche quando sembrano non poter far altro che esserlo.
Una benedizione per la narrativa.

mercoledì 23 dicembre 2009

Flusso di pensieri (ovvero di quando Nick Hornby, Wu Ming e la letteratura in generale gettino ponti tra narrativa e realtà)

Immerso nella vasca a leggere "Juliet, Naked" di Nick Hornby, e con questo ho già anticipato il prossimo libro commentato (ma non importa! tanto non c'è nessuno che le legga queste cose!), mi sono accorto di esser stato citato dall'autore.
BUM!!! direte voi, ed invece è proprio così. Sono stato citato, io e molti altri. Verso pagina 60 una delle due protagoniste, Annie, ragiona con se stessa sulla necessità di scrivere qualcosa dopo aver letto un brano, in questo caso bruttarello. Ci descrive un urgenza, un bisogno fisico di imprimere i propri pensieri su di uno spazio bianco. Un bisogno d'espressione viscerale.
Ecco, la stessa sensazione che ho provato dopo aver letto l'ottimo saggio di Wu Ming "New Italian Epic" (per approfondimenti cliccate qui oppure scaricate il testo direttamente dal loro sito, se proprio non volete comprare il libro!). Una sorta di frenesia incontenibile, di accelerazione delle idee, della volontà di provare a sbrogliare una matassa ormai troppo vasta di pensieri. Questo spazio è uno dei tentativi di risposta a quella moltitudine di sensazioni.
Nel romanzo sopracitato si prosegue il ragionamento e le descrizioni di chi lancia tracce nella rete. Annie si distingue per acume e limpidezza narrativa mentre il suo compagno Duncan per la spocchiosità e la pomposità nel esporre le proprie idee riguardo a passioni/ossessioni (il caro Nick ci sa descrivere proprio bene nella quotidianità che celiamo dietro la porta). Ripensando alle bozze tentate finora ed ai tentativi di conversazione con autori a me cari (sul sito di Altai, miei cari non-lettori potete scovare miei piccoli arrembaggi al dialogo... non sempre di gran caratura), altro argomento che, anche se secondo altri fili, si rilega alla mia quotidianità, non posso non notare quanto sia ancora un Duncan che aspira all'Annie, ma in fondo sono qui anche per questo.
Non so quante miriadi di persone sentano questo bisogno d'espressione o sappiano risalire ai momenti che più l'hanno alimentato. Sono profondamente convinto che in ogni persona esistano narrazioni prototipiche che hanno solo bisogno di trovare una forma propria. Sicuramente l'argomento avrà una sua ricca letteratura alle spalle. Forse il bisogno di oggi di apparire e mostrarsi potrebbe essere una distorta realizzazione di questi slanci narrativi, vista la cattiva abitudine a ragionare/leggere/pensare (vedi qui).
Comincio a perdermi e a confondermi.
Vorrei raccontarvi di un fatto "molto italiano" (per citare Stanis La Rochelle) accadutomi pochi giorni fa ma forse è meglio rimandarlo (suspense!!!) a momenti di minor rincoglionimento...

domenica 20 dicembre 2009

"Crime" di Irvine Welsh

Welsh è tornato al grande romanzo. Senz'ombra di dubbio.
Certo, le sue storie devono piacere per tematiche, ambientazioni ed espressioni, ma con "Crime" la "saga" su Edimburgo, i suoi quartieri e la sua gente, cresce e si arricchisce con una nuova brillante diramazione che ci riporta nelle file della polìs scozzese. Ray Lennox, già intravisto ne "Il lercio", getta un ponte tra la cosiddetta Atene del Nord e Miami, alle prese con un groviglio di traumi, ansie e drammi umani che si dipanano pagina dopo pagina, in uno squisito mix tra passato remoto, passato prossimo e presente.
La capacità che ha questo scrittore di fare percepire le situazioni in cui ci cala è ancora una volta impressionante. Bettole, stadi, cunicoli, strade soleggiate, non importa il dove perchè noi siamo lì con i suoi personaggi a respirare muffa e umidità, a tormentarci l'animo, a riprenderci da agordi sfrenati. Inoltre, rispetto all'ultimo romanzo, Welsh sfodera una narrativa incredibilmente matura, tanto cruda e spietata quanto suggestiva e raffinata. Il tutto scorre meravigliosamente, riuscendo a non essere mai banale. I suoi personaggi diventano sempre più tridimensionali e tangibili, fatti di carne, odori ed emozioni visibili.
Rispetto al Robbo, poliziotto corrotto, schiacciato dalle sue debolezze e dalle sue miserie, Lennox è un personaggio più umano e sfaccettato. Le parabole di questi due personaggi sono speculari. Del primo avevamo visto la caduta. Del secondo osserviamo la lenta risalita dagli inferi. Ne apprezziamo ogni drammatico sforzo. Guardiamo la strada con gli occhi di chi di solito la pattuglia e la sfrutta. Di chi non sempre riesce a proteggerla. Welsh, con quest'opera, rompe il clichè dello sbirro corrotto e/o gratuitamente violento e/o braccio armato del potere e/o tante altre cose più o meno brutte e lo tinge di una miriade di sfumature che fanno ripensare alla concezione pasoliniana dei celerini. Umanizza un altro lato oscura delle sua città natale toccando un argomento tanto conosciuto quanto ignorato come la pedofilia, che ci viene mostrata incastonata nella routine di ogni giorno. Le pagine scottano e chiedono di essere girate. La lettura è intensa e trascinante. Pregiudizio e profondità si prendono a botte per tutto il romanzo, in un viaggio/fuga dai mostri che ci circondano e che abbiamo dentro.
Notevole.

martedì 8 dicembre 2009

"Free Karma Food" di Wu Ming 5

Se cercate un libro cyberpunk, avete trovato un ottimo romanzo. Se siete ammiratori dei Wu Ming, preparatevi ad una lettura inaspettata, parallela, per quanto riguarda lo stile di scrittura, non certo per contenuto.
Il romanzo ci teletrasporta in un futuro non troppo remoto in cui droga, cibo, potere e violenza sembrano essersi irrimediabilmente mescolate. Ancor più di quanto riusciamo ad immaginare oggi. La storia è intrigante e, ahimè, non così irrealistica, per quanto estrema. I personaggi, animali urbani, prendono vita con l'avanzare delle pagine e ci aiutano a riempire i buchi ed i dubbi che l'autore ci dona nel magnifico caos panoramico dei prologhi. Arti marziali, nuove forme d'economia e di ipocrisia (nei confronti di comportamenti "socialmente inaccettabili"), nuove forme d'inquinamento psicosensoriale... l'autore, in tutti i sensi, mette tantissima carne al fuoco. Ci mostra a suon di cazzotti come siamo, indicandoci ipotetici divenire.
Però lo stile di scrittura è per stomaci forti. Nonostante sia molto cinematografico, serve molta concentrazione per non farsi sfuggire tutti i passaggi e i collegamenti nascosti tra le righe od anche solo per capire bene chi o di che cosa si stia parlando in taluni momenti.
Non è un romanzo da leggere con leggerezza.
Come deo sopra, tra tutti i WM letti, è quello che più si discosta, per stile narrativo (oltre che per genere), dal filone principale. Quasi appartenente ad un universo parallelo.
Che altro aggiungere... personalmente devo ammettere di averlo letto in condizioni ambientali e di concentrazione non ottimali. Non sono riuscito a farmi risucchiare escludendo come al solito il circostante in maniera autistica. Sono appena riuscito a percepire ciò che invece andrebbe gustato. Ammetto che è un genere a cui non sono avvezzo e che non riesco ancora a maneggiare adeguatamente. Per questo motivo mi piacerebbe sentire altri pareri più consapevoli. Altre impressioni.
Resta comunque un'opera molto interessante e da approfondire maggiormente. (per chi fosse interessato ad approfondimenti, il libro ha un bellissimo sito)

domenica 6 dicembre 2009

Memories vol. 2

In piena rilassatezza domenicale tento di richiamare alla memoria altri libri di un passato più o meno recente.
Se con "Il nome della rosa" il caro Eco aveva voluto canzonarci con un pseudo-romanzo storico (sinceramente non so perchè, ne ho letto su "New Italian Epic" in un passaggio sul postmodernismo ma non saprei dire di più sull'argomento) con Baudolino la canzonatura diviene più marcata e improvvisa, teletrasportando violentemente il lettore dallo (pseudo)storico ad un fantasy dalle sfumeture storiografiche. La qual cosa, ammetto, m'infastidì parecchio. Il libro è scritto molto bene e fin da l'inizio, per chi legge, è lampante quanto il romanzo sia solo ambientanto in un epoca passata (medioevo ai tempi del Barbarossa) e ne voglia riempire i buchi in maniera semiseria. Per 3/4 della storia accompagnamo questo Baudolino, bugiardo colossale la cui storia «solo un altro bugiardo come lui avrebbe potuto raccontare», in svariate peripezie più o meno comiche. La lettura scorre. Scorre molto bene. La storia, per quanto palesemente fantasiosa, è realistica, anche grazie ai passaggi in cui ci viene mostrato un possibile volgare dell'epoca.
Ma improvvisamente... cambia tutto. L'ambientazione diviene palesemente e volontariamente inverosimile per quanto fortemente allegorici. I fatti degni di un buon libro fantasy.
La scrittura rimane buona, molto buona, ma lo stridore che tale rivoluzione di genere crea in chi legge è simile ad una grotta in cui migliaia di lavagne vengano prese ad unghiate. Il prosieguo della lettura è sofferente. Il gioco della verosimilità della storia rotto. Si continua a leggere ma con un po' d'insoddisfazione.
Conoscendo Eco, credo che questa rottura, questo netto passaggio realistico/fantasy, sia voluto, cercato, studiato. A posteriori è entusiasmante pensare a come sia riuscito a fondere miti e dicerie dell'epoca, ricostruzione storica e menzogna. Noi stessi lettori cadiamo vittima dei tanti inganni che questo personaggio è capace di edificare.
Per questo motivo consiglio vivamente la lettura, nonostante mi abbia fatto tanto soffrire durante la lettura. Tutto scorre come un fiume e niente è lasciato al caso. Lo stesso effetto sgradevole del cambio di direzione della storia è un colpo di genio dell'autore e la potenza delle reazioni che scatena ne è uno splendido sintomo.
Mi piacerebbe sentire il parere di chi mastica teorie letterarie in maniera più approfondita. Potrebbero svelare le mille sfaccettature nascoste in questo labirinto letterario caleidoscopico. Per ora preferisco lasciarvi alle parole dell'autore poco prima dell'uscita del romanzo.

sabato 5 dicembre 2009

"Che la festa cominci" di Niccolò Ammaniti

"Benvenuti al party del secolo. L'Italia fatta a pezzi in una sfrenata ed esclusiva apocalisse".
Già nella quarta di copertina la storia ci viene riassunta in modo conciso ma preciso. Chi si sentiva ancora i vestiti umidi ed i sensi intorpiditi dalle ambientazioni e dallo spietato realismo del precedente "come dio comanda" sarà costretto ad un fulmineo riassestamento cognitivo.
Con questo libro Ammaniti si dimostra capace di svariare da un genere all'altro, mantenendo inalterato il ritmo narrativo cinematografico con cui è solito mostrare lo svolgere degli avvenimenti. Dalle tetraggini della periferia di pianura alle luci ed alterazioni della Roma "bene".
Come ha detto l'autore un mese fa da Fazio (che, nonostante l'impegno, non è riuscito a rovinare completamente i colpi di scena celati nel romanzo) l'ironia (o la satira?) è la protagonista indiscussa della storia. Un'ironia inversa o comunque disillusa.
Le vite e le particolarità dei protagonisti oscillano in continuazione tra buffo stereotipo e triste rappresentazione di umane miserie. Come nella vita di tutti i giorni, i personaggi celano così tante sfaccettature da risultare ora gradevoli, ora fastidiosi, ora compatibili. Per quanto la storia sia dichiaratamente surreale, le reazioni degli attori di questo teatro dell'assurdo sono dolorosamente reali. Anche quando ci fanno ridere di cuore.
Con questo racconto allegorico Ammaniti ci mostra i lati che meno vorremmo conoscere delle persone e con cui siamo ormai ben abituati a convivere.
La lettura risulta piacevole, scorre come una massa d'acqua dirompente in un cunicolo. Pagina dopo pagina veniamo accompaganti verso un finale allo stesso tempo inaspettato e scontato (a voi scoprire il perchè). Certo, rispetto al lavoro precedente è tutta un'altra cosa. Resta una bella cosa però. Lo stile, la storia e i personaggi ricordano il Palahniuk dei primi tempi, senza miscele di genere o improvvise deviazioni della storia. La capacità di scrittura, fortunatamente, ricorda il buon vecchio Ammaniti.
Gustoso.

martedì 1 dicembre 2009

Il "caso" Baricco

In questi giorni di flebile febbre e vigliacca spossatezza non si può fare altro che leggere, tra un dormiveglia e l'altro. Ottima occasione per aiutare la pila di libri in attesa a trovare il proprio posto sulla libreria. Ci tengo a premettere quanto Baricco sia per me un autore perlomeno controverso. Ne ho sempre apprezzato la scrittura, rimanendo però, una volta chiuso il libro, se non durante, con una fastidiosa sensazione di sottofondo. Se non ricordo male, la sua prima opera letta fu "Seta", delizioso libercolo che mi colpì (erano ancora i tempi del liceo) per la sua poetica ma di cui ricordo ben poco (se non una struttura narrativa simile a quella dei libri di Maxence Fermine, scritti e pubblicati in seguito). Inoltre avevo sentito parlare molto bene di altre sue opere da professori che avevano la mia stima e perciò divvene uno scrittore "da provare". Perciò, qualche anno dopo, non mi feci scappare "Questa storia", che mi aveva intrigato al primo sguardo. E, ammetto, mi aveva letterlamente entusiasmato.
Ricordo di aver interrotto più volte la lettura del primo capitolo, per pochi secondi, per esprimere ai muri di camera mia, alle coperte ed agli altri libri che ci osservavano curiosi, l'emozione che una tale scrittura era riuscita a provocare. La storia, se ben ricordo, parla di un ragazzo pittoresco che s'intestardisce nel realizzare un'impresa unica nel suo genere. Baricco ha scelto di raccontarcela cambiando punto di vista ad ogni capitolo e con questo anche lo stile narrativo, purtroppo. Non che gli altri capitoli siano brutti o scritti male, per carità, semplicemente vengono offuscati dalla bellezza del primo. C'è da sottolineare, però, il coraggio e la bravura dell'autore nello scrivere un romanzo che sembra scritto a più mani e nel far parlare ogni personaggio con una voce propria. Per questo motivo, finito il romanzo, non ero ancora riuscito a capire che opinone avessi sull'autore. Con queste ed altre domande, tempo dopo, lessi "Castelli di rabbia", libro di cui, ammetto, ricordo pochissimo. Eccetto una monumentale descrizione della realizzazione dell'opera musicale perfetta: la momentanea fusione di due composizioni distinte, eseguite a mò di parata, che si avvicinano, fondendosi lentamente, per poi riallontanarsi ritrovando vita e senso proprio. Idea e scritture bellissime ma, ahimè, non so aggiungere altro al romanzo, se non che, a grandi linee, ricordo aver gradito. Può sembrar strano sentir parlare di storie se non se ne ha memoria, ma il fine di questo blog non è fare lezioni di narrativa, giudicare gli altrui stili di scrittura o dare assolutistici pareri pseudoaccademici (non ne ho nè la capacità nè la voglia). Il fine di questo blog è palare di storie, di narrazioni. Delle emozioni e/o sensazioni da esse create. Nella speranza di poter, prima o poi, beneficiare con apporti esterni con cui interagire e arricchire ogni argomento.
Continuando il mio arrovellamento su Baricco passo ora alla sua sperimentazione più grande: "Lezione 21". Opera con cui l'autore ha mantenuto il suo stile narrativo sperimentale, realizzato, questa volta, senza sbavature alcune. Ammetto che quando entrai al cinema ero altamente bendisposto verso la pellicola, grazie alla "Nona" di Beethoven, da me molto amata. E anche alla fine sono rimasto molto soddisfatto, nonostante in sala qualche impaziente sia uscito strada facendo. Immagino che l'utilizzo di storie nella storia, i commenti fatti da personaggi quasi onirici, a sè stanti e totalmente slegati dal filo narrativo ed il vorticare di contenuti, filosofici e non, che contraddistinguano lo stile di Baricco, possano essere risultati indigesti ad occhi ed orecchie più "quadrati" e meno inclini al sospeso (spesso le sue storie sono gomitoli che si dipanano strada facendo, che lasciano a lungo estraniati e smarriti e che necessitano di pazienza ed elevata curiosità). Ma "Lezione 21" è una storia meravigliosa, forse un po' sbruffona ma al contempo anche ironica, che si addentra in tematiche quali la bellezza, la vecchiaia ed il riscontro della leggenda nella realtà. Assolutamente da provare.
Del Baricco di cui ho parlato finora posso quindi dire di apprezzare fortemente le sperimentazioni narrativo/filosofiche che tenta in ogni sua storia, la sua particolarità di esser sempre simile, coerente, pur cambiando tantissimo da una narrazione all'altra (almeno, in ciò di cui ho esperienza). Forse l'impatto visivo meglio si addice alle sue storie o forse la sua scrittura non è tra le più adatte per me, lasciandomi sempre un pochino inappagato. Passiamo adesso al
Baricco più recente. Il suo ultimo lavoro, "Emmaus", è come la copertina del libro. Candido. Intangibile. Un mix tra saggistica, narrativa e intimismo. Si parla di adolescenza, di fede religiosa (in questo caso cattolica), di ceti sociali, di possibilità. Di vita. In poche pagine l'autore affronta moltissime tematiche con gli occhi di un adoloscente che si appresta a divenire uomo. Libro curioso, ricco di riferimenti e filosofia ma che, devo ammettere, non mi ha entusiasmato. I personaggi, da diafani e dicotomici, diventano strada facento sempre più complessi e dimensionali. Ammetto di non aver capito fino in fondo dove l'autore voleva spingerci e di essermi ritrovato circondato da un bianco spaesante per tutta la lettura. Ognuno sceglie la propria strada, o è già scelta? Il mio rapporto con Baricco è ben lungi dall'essere sereno e incondizionato. Tuttavia c'è. Perlomeno finchè continuerò ad essere incuriosito dagli enigmi che ci propone.

"Altai" di Wu Ming

Cosa si può aggiungere su questo gruppo di artigiani che non sia stato già detto?
Come parlarne senza risultare ridondanti, offuscati dall'ammirazione e dai brividi che le loro opere possono infondere?
Ammetto di non essere la persona più indicata a parlare di un'opera di Wu Ming, essendo da parecchi anni un loro forte estimatore, ma non posso non riconoscere, per l'ennesima volta, di essermi trovato immerso, pagina dopo pagina e riga doopo riga, in luoghi, sensazioni, odori e pensieri di difficile esplicazione. WM, con "Altai", sono riusciti nell' "impresa" di riportarci nel "mondo di Q." creando una storia in possesso di vita e luce propria, non dipendente dalla loro opera prima, al massimo arrichita dalle vibrazioni dell'opera prima che si possono percepire tra le righe. Il collettivo continua a crescere, a evolversi e a raffinarsi. In ogni loro pagina si possono trovare riferimenti al passato, alla contemporaneità, al futuro, limpidi e sinceri. Certo, de gustibus non disputandum est, e sarebbe ipocrtita volermi porre nella condizione di "critico assoluto" dei loro romanzi. La densità dei loro contenuti, il ritmo della loro scrittura, le loro idee, et. et. et... possono risultare pesanti, non essere condivisi o apprezzati. Ritengo però che chiunque abbia un minimo di senso critico (e autocritico) non possa non riconoscere il valore che sta dietro ai loro parti (non vi è mai capitato di non apprezzare un libro riconoscendone comunque il valore?). Mi viene quindi da ridere leggendo commenti simili a quello inespresso da Giordano Tedoldi su Libero? (per la serie "al peggio non c'è mai fine" vedi: www.libero-news.it/articles/view/595101+%22Il+collettivo%22+%22arrivato+al+capolinea%22&cd=1&hl=en&ct=clnk&gl=us&client=safari) scritti col solo intento di screditare il non gradito, di murare qualsiasi tipo di confronto di dialogo, usando (per citare, forse impropriamente, WM1 in " New italian epic, pag 96) parole "intrise di disprezzo per le espressioni culturali" ritenute "più plebee" e che non possono essere accostate all'alta letteratura che persone come questa, automasturbatori di un non meglio identificato "parnaso di stronzi", pretendono di considerare unica, immutabile e imperitura. Detto questo mi sembra il caso di tornare al libro.
"Altai" ci riporta al mondo di "Q." in maniera fortunatamente inaspettata. Certo, ritroviamo vecchi personaggi a cui avevamo imparato ad affezzionarci, ma quasi non riusciamo a toccarli. O almeno, non come avevam fatto in precedenza (aspetto allo stesso tempo frustrante e gratificante). Sono passati quindici anni dall'arrivo dei nostri affezionatissimi a Costantinopoli e tante cose sono cambiate. Non l'utilizzo dell'odio verso i "diversi" come forma di controllo o i vari mezzi, perlopiù violenti, che il potere (tirranico, fascista, totalitario...) può utilizzare per compiersi o affermarsi. Non importa a quale religione si faccia parte, come la s'interpreti o quanto ci si voglia dimostrare tolleranti e magnanimi. A modo suo, ogni persona che ci portano a conoscere cerca il bene (proprio, altrui, universale...) ma per fare questo necessita dell'esistenza del "male", del dolore, dell'ingiustizia.
Questa volta, però, lo stile e le dinamiche della storia appaiono differenti rispetto ai romanzi precedenti, lasciando chi legge, almeno inizialmente, piacevolmente stranito. La riflessione, trasversale nelle loro opere, su giustizia, potere e ideali continua la sua evoluzione senza pretendere di dare una risposta definitiva (pur essendo percepibile l'idea degli autori a riguardo). La ricerca del collettivo di guardare la storia da altri punti di vista (o dal verso "sbagliato"), per quanto criticata da chi ne riconosce una soltanto (unica, immutibale e imperitura), è una boccata d'ossigeno in un mondo che ci vorrebbero far credere univoco. Inoltre, nonostante il punto di vista del romanzo sia sempre quello di Emanuele/Manuel (e già questa è un grande novità), anche la figura della donna appare ancor più approfondita. Già in "Manituana" la sua capacità generativa (e per generare o rigenerare c'è bisogno che qualcosa crolli o si disfi, come in un ciclo), la sua stabilità e il suo punto di vista "alieno" erano state apprezzate molto di più che nei precedenti romanzi (in particolare in "Q.", di "54" mi ricordo poco e preferisco non parlare, almeno non prima di una rilettura) in personaggi come Molly Brant o Esther. In "Altai" le figure femminili si mostrano in tutta la loro complementarietà rispetto a quelle maschili, sottolineando la necessità che entrambe si guardino e vedano se si vuole tentare di evitare il peggio. Gli occhi della storia (i nostri, quelli di Manuel) si accorgono di questo aspetto ma non sono capaci di realizzarlo in tempo.
Anche la figura del protagonista cambia in questa storia. Se precedentemente abbiamo conosciuto eroi tanto epici (nel senso più omerico del termine) quanto tragici (shakespearianamente parlando) nel corso dei romanzi i nuovi venuti sono più realistici, più combattuti, tanto fragili quanto saldi (più romantici forse?) nel ricercare le loro utopie e nelle loro scelte. Non c'è più posto per i soli ideali, si deve far spazio anche alla disillusione. Il mondo prosegue e, guardandosi solo indietro od avanti, si rischia di perdere il senso del presente e del tutto (ma è possibile averlo?) e la possibilità di incidere concretamente sulla strada da percorrere senza esserne sopraffatti.
Col tempo Wu Ming diviene come il buon vino, migliora. E necessita di meno parole, ma sempre più curate e potenti, per farci comprendere con feroce intensità il significato delle sue narrazioni, delle sue allegorie. Per darci qualcosa su cui ragionare.
Ottimo libro. Ricco. Denso. Commovente.
Da rileggere.
(stralci di letture qui, qui e qui)