sabato 30 gennaio 2010

"L'uomo che verrà" di Giorgio Diritti

Tanto per restare in tema con gli stascichi bellici di Brizzi, mi sono recato a vedere l'ultimo capolavoro del sempre più sorprendente Giorgio Diritti. Rispetto al suo primo docufilm, "Il vento fa il suo giro", questa volta ha deciso di giocare in casa e di mostrare gli avvenimenti che nel settembre '44 hanno sconvolto l'area di Monte Sole (gli avvenimenti, conosciuti come "l'eccidio di Marzabotto", per chi non li conoscesse, sono ben riassunti nel sito del film).
E' una pellicola che incanta, che inchioda alla poltrona alternando sublime poesia a profondo orrore. La storia inizia nell'inverno del 1943 e ci mostra, come un documentario, la vita contadina di un tempo non così lontano come può sembrare e le tante cose che sono andate perdute nella giostra che ci ostiniamo a far girare sempre più vorticosamente. Ritrovarsi in un fienile a parlare mentre si finisce d'intrecciare cestini, vedere le lucciole sorgere dal nulla per ricordarci della loro candida fragilità, osservare un albero prendere vita in un tramonto. E i frondosi silenzi che compongono melodie sempre nuove.
Aggiungete a questo una fotografia di rara bellezza e la poesia in cui il regista può calare lo spettatore è fatta.
Tutto ciò, però, è solo una parte del film. L'orrore che si sta per abbattere sulla popolazione, l'atrocità e l' eterna lentezza della violenza colpiscono alla bocca dello stomaco, lasciando senza fiato. Nonostante si entri in sala consapevoli di ciò che accadrà, ci si trova storditi davanti a tanta apocalisse. L'abitudine alla sboroneggiante e gratuita violenza holliwoodiana fa sentire il contraccolpo di un'agonia portata all'estremo. Siamo lì anche noi. Siamo inchiodati alle poltrone. Impotenti e incazzati.
Nel finale, appare l'uomo che verrà, riuscito a scampare alle atrocità umane che lo circondavano e di cui ha ignorato ed ignora l'esistenza. Gli rimaranno solo i racconti di tutto ciò che c'era prima. Ci rimangono solo racconti.
Personalmente lo ritengo uno dei film più belli mai visti, potessi farlo, porterei vagonate di studenti a vederlo. A quei pochi che conosco potrebbe servire a superare la passività dia-logica a cui si stanno assuefacendo. Ma questa è un altra storia (?).

sabato 23 gennaio 2010

L'ucronica Italia di Brizzi

Provate a pensare cosa sarebbe successo se invece di cazzeggiare insieme ad Hitler, Mussolini avesse deciso di dichiararsi neutrale, trovandosi in seguito costretto a difendersi dal terzo Reich. Cosa sarebbe cambiato in Italia?
Niente, o forse tutto. Le sfumature e i colori. Ma la sostanza?
Con i suoi ultimi capolavori Brizzi si è lanciato nella costruzione di una storia d'Italia epica ed ucronica. Si è lanciato in un grandioso "E se?" per mostrarci meglio come eravamo ma soprattutto come siamo. Nella prima parte del dittico, "L'inattesa piega degli eventi", siamo invitati a seguire Lorenzo, giornalista di Stadio, nelle colonie italiane dell'Africa orientale. Tra partite di calcio, mangiate, feste e tresche escono fuori tutti gli scheletri di uno stato/impero corrotto e fondamentalmente scisso. In cui tutto è il contrario di tutto. Siamo al declino dell'impero fascista. Alla nascita della sua frammentazione in partiti in lotta tra loro per il potere. L'autore fa scorrere placidamenta la storia e più ci avviciniamo alla sorgente e più ne capiamo l'essenza, sia di quella narrata che della "nostra". Così come l'impero romano, anche quello italiano che se ne proclama successore, mostra nelle colonie, nei confini, le crepe più larghe ed evidenti. Quelle che fatichiamo a vedere o nominare in casa nostra.
Il secondo libro, "La Nostra Guerra", è a parer mio, ancor più godevole del primo. Secondo in ordine d'uscita, rappresenta una sorta di prequel di quello sovracitato (e qui si apre l'amletico dubbio: quale leggere per primo? Non lo so. Ho appena finito "La Nostra Guerra" e ho cominciato a rileggere "L'inattesa piega degli eventi" il cui ricordo, nonostante fosse un po'annebbiato, mi ha permesso di godere ancor di più nella lettura dell'ultimo. Fate vobis, la scelta è dettata da gusti personali e si potrebbe aprire un dibattito anche solo su questo punto). Siamo nel 1942 e l'Italia sta per entrare in guerra contro il Reich e contro se stessa. Cambia l'ordine e l'impatto della guerra nazionalistica e civile ma rimangono entrambe a testimoniare la personalità scissa della penisola.
Anche questa volta il protagonista è Lorenzo, qui ancora preadolescente e simpatizzante fascista, di cui seguiamo le peripezie standogli attaccati alla spalla. Rispetto al primo romanzo il clima è più familiare, soprattutto per chi è nato e/o vissuto a Bologna (in certi momenti si provano le suggestioni di alcuni film di Avati). Lo vediamo crescere, maturare, risistemare i cocci della sua famiglia e di ciò che gli ha trasmesso, farsi uomo, o almeno mettersi sulla strada buona per diventarlo. Contemporaneamente ci vengono mostrate le dinamiche che porteranno il Regno d'Italia a divenire repubblica. Per buona parte del libro monarchici e fascisti ci vengono mostrati in modo tale da portarci a "tifare" per quest'ultimi, grande forza rivoluzionaria (narrativamente parlando è l'apoteosi dello sguardo obliquo). Non per l'ideologia in sè, naturalmente, ma per ciò che nel romanzo rappresenta: la scatenatrice di passioni, di voglia di libertà, di speranza nel bene comune, nelle persone. Riga dopo riga verranno fuori le viscide capacità delle anguille nostrane assetate di potere, che rendono qualsiasi ideologia mezzo per acquisirne di ulteriore. Brizzi ci mette davanti ai nostri fantasmi. Ci mostra una fantastoria, una fantapolitica. Una foto del possibile incrocio dalle mille strade che ha la Storia per portaci ad un unica meta.
Sono romanzi che parlano di noi. Che ci descrivono limpidamente e ferocemente. Fanno ridere, incazzare, rattristare insieme ai suoi attori. Parlano di eroi e di presunti tale. Di volpi più o meno furbe. D'amori, rancori e sotterfugi. Di vita. E Brizzi è un maestro nel descrivere queste cose, nel farcele toccare.
Spero non vengano strumentalizzati da una parte o dall'altra, perchè ad essere coglioni ci si potrebbe vedere dentro di tutto un po'. In effetti c'è di tutto un po' ma l'uso che l'autore fa di pezzi e personaggi della storia è più che evidente. Vero New Italian Epic. Non importa come gli attori si definiscano, camerati, compagni, patrioti o chissà che altro, perchè certe dinamiche, quando strumentalizzate, portano verso una meta più o meno sempre uguale a se stessa.
Di questi tempi si avverte un enorme bisogno di cantastorie in grado di mostrarci come siamo e dove stiamo andando a finire. Di unire tra loro fili diversi, attivando il sopito. E per queste cose, Bologna, sta mostrando d'esser una fucina di grandiose narrazioni.

domenica 10 gennaio 2010

Eureka? A proposito di propositi...

Mi sono appena reso conto che le intenzioni iniziali di questo blog erano quelle di ricreare una sorta di confrontazione su libri e narrazioni varie... ora che sono venuto a conoscenza di aNobii non posso che sorridere della mio confusionesco e, almeno attualmente, non realizzato proposito. Fortunatamente, in corso d'opera, ho allargato gli orizzonti a cinema e possibili altre forme narrative, che per ora rimangono ancora in divenire... mi piace credere che prima o poi qualcuno arriverà qui per caso e lascerà un segno, o comunque immaginare questo spazio cibernetico come una sorta di diario disponibile a diramazioni varie... vediamo se questo 2010 porterà a qualcosa di più di questo soliloquio!
A proposito di 2010 e di propositi, quello per l'anno nuovo è di provare a dar forma ad almeno uno degli aglomerati che mi ristagnano in testa da un po'di tempo. Prima che marciscano completamente, o svaniscano come acqua di rose al vento. Una bella sfida per un campione di pigrizia ed incostanza!
(allego un collegamento all'aNobii wumingihiano)

sabato 9 gennaio 2010

Una considerazione su Sherlock Holmes


Sono passate poco più di ventiquattro ore dalla mia uscita dal cinema. Ogni tanto sceneggiatori, produttori e registi vari si rendono conto di non saper più come stupire o intrigare il grande pubblico e così, purtroppo e/o per fortuna, attingono ad idee non provenienti dai loro calamai digitalizzati e si rifanno ai classici. Purtroppo o per fortuna perchè, sebbene questa fruizione possa stuzzicare la curiosità verso i progenitori cartacei di queste rappresentazioni, il risultato finale non sempre evita ai trapassati autori di piroettare nelle loro tombe.
Questa volta è stato scelto di mostrare le gesta del "più grande investigatore di tutti i tempi" (per chi non sapesse chi è, guardare qui).
Devo ammettere che l'argomento è per me molto delicato, essendo l'opera su Holmes una delle prime belle ossessioni della mia adolescenza. Il solo vedere un servizio in cui il film veniva descritto come dotato di "meno logica e più azione", aspetto che sarà anche servito ad attirare nelle sale più telesedati, mi aveva immediatamente convinto a non guardarne neppure il trailer). Nonostante il ricordo letterario non fosse quella sera e non sia tutt'ora più limpidissimo, come potevo scordarmi le straordinarie particolarità investigative ed umane create da Conan Doyle? Come dimenticarsi delle immense conoscenze selettive, del modo obliquo di guardare le cose creando nessi inimmaginabili, delle astuzie per risolvere un caso, i vizi per tenersi allenato, l'insofferenza verso il banale? Nonostante i vari racconti si siano fatti nebulosi e faccia molta fatica a ricordare le particolarità che contraddistinguono i romanzi e le novelle (ad eccezione, non so perchè, de "Il mastino dei Baskerville), ricordo molto chiaramente le sensazioni provate durante le letture, l'emozione nel cercare d'intuire nessi tra indizi che non sempre Doyle ci mostrava immediatamente, preferendo lasciarci osservare da un punto di vista più "comune". Più vicini a Watson o addirittura a Lestrade, per intenderci.
Per questo motivo immaginare i miei due beniamini di un tempo paragonati a Batman e Robin mi lasciava tra lo stomacato e l'incazzato, "va bene dover accettare di combattere con l'ignoranza dilagante, pensavo, ma a tutto c'è un limite!!!". Eppure, dopo aver ascoltato diversi pareri di persone di cui mi fido (o di cui non mi sarei mai aspettato un apprezzamento verso certi film), ho ceduto e sono andato a vederlo. E devo dire di essere contento di averlo fatto. Intendiamoci, se si entra in sala per appagare in toto aspettative da romanzo, si uscirà delusi. Ma la storia è costruita bene.

I due personaggi (Watson in particolare) assomigliano, perlomeno fisicamente, all'idea che si forma riga dopo riga. Certo, sono molto americanizzati rispetto agli originali londinesi. Più sboroni. La battuta è spesso dietro l'angolo e le botte alla "Die Hard" pure. Ma i personaggi sono fedeli ai loro cartacei, così come il rapporto che li lega. Watson riprende di continuo Holmes per i suoi esperimenti o per le sue abitudini poco salubri e non riesce a staccarsene, sebbene in procinto di crearsi un proprio nucleo familiare. Lo stesso investigatore ci viene mostrato in tutta la sua scaltrezza, in tutta la sua logica. Il ritmo è molto veloce (ma non più intenso d molti racconti originali) e il rischio caricaturale sempre presente. Va comunque apprezzato il fatto che gli sceneggiatori abbiano letto e rispettato i tratti più salienti lasciando presente l'essenza dei personaggi, anche se più a stelle e strisce. Perfino la storia, che non lascia dubbi sul/i sequel futuro/i, è ben costruita e dotata di un finale dalle fattezze holmesiane: supremazia alla logica e certezza nella spiegabilità degli eventi.
Non viene lasciato molto spazio al trascendente ed anche la resurrezione risulta una semplice concatenazioni di eventi. Ma forse il trascendente risulta più chiaro se analizzato da occhi che non si accontentano di guardare ma si sforzano di vedere.
Concludendo, merita di essere visto. Può piacere, fare schifo, ma è comunque qualcosa di più di botte, sangue e tante tante esplosioni (trama media holliwoodiana). Merita una chance, se non altro per il tentativo di mostrare le evoluzioni di una mente unica nel suo genere.
Inoltre, per quanto mi riguarda, è un ulteriore insegnamento a non fermarsi davanti ai pregiudizi.

P.S.
Per chi non avesse mai avuto occasione, consiglio il racconto "Il caso del dottore", di Stephen King, contenuto nella raccolta "Incubi e deliri". Ottimo esempio di prosecuzione, o resurrezione, narrativa. Leggendolo viene da chiedersi se non abbia pubblicato un inedito di Doyle a proprio nome, tanto lo stile di scrittura si assomiglia!!!

martedì 5 gennaio 2010

"Under the dome" (incomprensibilmente chimato solo "The dome" nella versione italiana) di Stephen King

Chiudere un libro del signor Re lascia sempre un senso di malinconia, di uggiosità interiore, anche se non rientra nella "top ten" delle sue opere (e devo ancora capire se quest'opera ci rientri oppure no).
Che posso dire dopo 1036 pagine di patèmi? Come rendere onore ad ogni persona che ho conosciuto leggendo? La storia, di per sè, non è niente di strabiliante: un paese rimane chiuso dentro una cupola misteriosa e gli abitanti al suo interno tirano fuori il meglio ed il peggio di sè.
Punto.
Non sembra strabiliante messa in questi termini, vero?
In effetti no. A strabiliare è, come al solito, l'immensa capacità di quest'autore nel dar vita a personaggi reali, a creare intrecci narrativi degni dei più abili filatori ed a far nascere, in chi legge, emozioni di rara intensità (e non sempre belle...). Insomma, quando uno sa scrivere, sa scrivere, c'è poco altro da dire. In circa un anno e due mesi King ha arricchito il Maine di un'altro paesino "dannato" con cui ci ha mostrato, per l'ennesima volta, a che punto siamo come umanità. Sul risvolto della terza di copertina c'è scritto che questo libro è epica allo stato puro. Può darsi, non sono certo io il più ferrato a stabilirlo. Sicuramente tutto ciò che viene letto è realistico, reale.
I personaggi sono tantissimi (per questo, e per fortuna!, ad inzizio libro c'è un elenco dei personaggi più importanti) e lo sguardo su di loro e ciò che gli accade è a 360°, se non di più. Ogni capitoletto di ogni parte del libro cambia soggetto, punto di vista, io narrante... per questa opera ha sfoderato tutte le sue capacità narrative (e non sono poche...). Il sangue che scorre è tanto (così ad occhio credo sia il suo secondo romanzo con più morti ma potrei sbagliare) e non sempre riusciamo a mandarlo giù in maniera indolore (come riescono orribilmente a fare molti tg). Il bello dei suoi racconti è che non si può mai dare nulla per scontato, neanche quello che si è riusciti a prevedere. Inoltre, rispetto ad una volta, il carico allegorico dei suoi lavori diviene sempre più intenso (o forse prima non riuscivo a coglierlo io, chissà...) e non voglio lanciarmi in interpretazioni, elenchi e collegamenti, più o meno scontati, o almeno, non voglio farlo in monologo. Se mai qualcuno leggerà e aprirà dibattiti sull'argomento, ben venga, sarebbe molto stimolante (anche perchè su King si potrebbe parlare per ore).
Leggevo oggi mentre ero in fila una delle due aperture all'ultima opera di Brizzi, "La nostra guerra", e mi è parsa immediatamente adatta a commentare anche "Under the dome". E' un brano tratto da "Le origini del fascismo in Italia" di Gaetano Salvemini:

Per compiere il primo passo in un certo genere di azioni delittuose non occorre una intelligenza superiore alla media; ciò che si richiede è soltanto una mancanza di scrupoli oltre il normale.
Al momento di compiere il primo passo tutti gli altri successivi non sono previsti; ma chi comincia ad agire male continua ad agire male, per evitare le conseguenze del primo fallo.
Solo quando la catena di cause ed effetti è arrivata alla sua conclusione, quegli uomini che hanno seguito le cose sino ai loro imprevisti risultati fanno la figura di avere condotto gli eventi verso la meta prestabilita.

Ecco, queste parole descrivono molto bene quello che accade agli "incupolati" di Chester's Mill. Sono più adatte a descrivere le azioni di una folla che quelle dei burattinai che tentano di manovrarla. King, col suo romanzo, ci mostra come possano essere messe in atto da caso, stronzaggine, violenza e paura. A modo suo ci dà del materiale su cui riflettere e lasciate stare i suoi aspetti più macabri, fantascientifici od horror; usa storie realistiche mescolate a fantasia per non terrorizzarci fino in fondo. Perchè la descrizione che sa fare degli angoli bui dell'animo umano sono agghiaccianti riprese e le esagerazioni le rendono meno spaventose a chi legge... forse.
Mi sono voluto focalizzare su questo sfiorarsi che caratterizza gli ultimi libri da me letti anche in onore al terzo anno di NIE (senza puntini intermedi!) che ha stimolato questo raccoglitore saltuario di pensieri su ciò che più mi piace: la narrativa e le narrazioni. Per chi fosse interessato c'è qui un articolo molto interessante, condito di approfondimenti notevoli.
Tornando alla "Cupola", sarebbero tante le cose da dire, i commenti da fare e le allegorie da confrontare, chissà se se ne riuscirà a dibattere.
Il libro resta comunque meraviglioso (forse non dei suoi migliori o forse no, devo ancora decidere) e trascinante. Chi conosce già l'autore non rimarrà deluso, chi non lo conosce... non sa cosa si perde!!!

domenica 3 gennaio 2010

"L'uomo nero" di Sergio Rubini

Piccola perla di cinema italiano per inaugurare il 2010. Peccato la prima fila al cinema e l'annodamento di vertebre cervicali... perlomeno n'è valsa la pena.
Con questa pellicola Rubini si supera, effettuando un ottimo miscuglio dei temi affrontati nei precedenti lavori. Il quieto e tumultuoso scorrere della vita di un paesino pugliese, le dinamiche familiari (e le sue frustrazioni/azioni), l'arte nelle sue espressioni più pure e spontanee e la critica che pretende di conoscerne ogni angolo e sfumatura. Proprio questo ultimo aspetto dev'essere particolarmente caro et indigesto all'autore (così come lo erano i giudici per De Andrè), che già lo aveva trattato in "Colpo d'occhio". La storia ci viene mostrata con gli occhi di un bambino (Gabriele), che ritorna in paese per dare al padre (Ernesto) l'estremo saluto. Ernesto è un artista, che per vivere fa il capostazione.
Un artista frustrato. Proprio a causa di queste sue origini "popolari" e schernito da "dù stronzi" che non saprebbero riconoscere una crosta dal suo formaggio ma che, grazie alla loro posizione sociale, "concedono" ai conpaesani di sapere quale siano l'espressioni artistiche meritevoli. Due merde della peggior specie, insomma.
Per quanto, in certi tratti, lo svolgimento della storia sia prevedibile (il finale è almeno in parte intuibile), ogni sequenza merita di essere gustata e ci accompagna verso il commovente epilogo. A modo suo Ernesto è un eroe tragico. Ancor di più per il modo con cui va incontro alle proprie sconfitte (se così le possiamo chiamare).
Agli occhi di Gabriele è un "uomo nero", mostruoso, cattivo e pericoloso come il sinistro figuro che ogni tanto lo spaventa per le vie del paese, o come lo sono per noi i "grandi detentori della cultura" che sghignazzano e ammiccano, incapaci di assistere alle vere bellezze che li circondano, come la mescolanza di colori che un viaggio in treno può regalare (bellissimo momento padre/figlio), offuscati dalle proprie aridità.
Nulla è quel che sembra. Così nell'arte, così nella vita.
Tra risate, qualche tremito di commozione e tanta riflessione si esce dalla sala provati e soddisfatti. L'eroe tragico riesce a prendersi la sua rivincita, pur nella sconfitta. Riuscendo a dare gioia ed a mostrarsi in tutta la sua grandezza sia ad un amico ormai prossimo alla morte che al figlio, ormai adulto, che ne ha appena salutato il sepolcro.
Film visionario e sorprendente. Con attori all'altezza (finalmente vedo Scamarcio alla prova con un ruolo che non sia: bello, bello e dannato, dannatamente dannato e bello o misteriosamente bello e/o dannato, non se ne poteva più! e in effetti in questa storia mostra quanto possa svariare ed esprimere come attore, al di fuori dell'"universo mocciano"), calati perfettamente nel proprio ruolo.
Una gioia per gli occhi, per i cuori e per le menti.