sabato 23 gennaio 2010

L'ucronica Italia di Brizzi

Provate a pensare cosa sarebbe successo se invece di cazzeggiare insieme ad Hitler, Mussolini avesse deciso di dichiararsi neutrale, trovandosi in seguito costretto a difendersi dal terzo Reich. Cosa sarebbe cambiato in Italia?
Niente, o forse tutto. Le sfumature e i colori. Ma la sostanza?
Con i suoi ultimi capolavori Brizzi si è lanciato nella costruzione di una storia d'Italia epica ed ucronica. Si è lanciato in un grandioso "E se?" per mostrarci meglio come eravamo ma soprattutto come siamo. Nella prima parte del dittico, "L'inattesa piega degli eventi", siamo invitati a seguire Lorenzo, giornalista di Stadio, nelle colonie italiane dell'Africa orientale. Tra partite di calcio, mangiate, feste e tresche escono fuori tutti gli scheletri di uno stato/impero corrotto e fondamentalmente scisso. In cui tutto è il contrario di tutto. Siamo al declino dell'impero fascista. Alla nascita della sua frammentazione in partiti in lotta tra loro per il potere. L'autore fa scorrere placidamenta la storia e più ci avviciniamo alla sorgente e più ne capiamo l'essenza, sia di quella narrata che della "nostra". Così come l'impero romano, anche quello italiano che se ne proclama successore, mostra nelle colonie, nei confini, le crepe più larghe ed evidenti. Quelle che fatichiamo a vedere o nominare in casa nostra.
Il secondo libro, "La Nostra Guerra", è a parer mio, ancor più godevole del primo. Secondo in ordine d'uscita, rappresenta una sorta di prequel di quello sovracitato (e qui si apre l'amletico dubbio: quale leggere per primo? Non lo so. Ho appena finito "La Nostra Guerra" e ho cominciato a rileggere "L'inattesa piega degli eventi" il cui ricordo, nonostante fosse un po'annebbiato, mi ha permesso di godere ancor di più nella lettura dell'ultimo. Fate vobis, la scelta è dettata da gusti personali e si potrebbe aprire un dibattito anche solo su questo punto). Siamo nel 1942 e l'Italia sta per entrare in guerra contro il Reich e contro se stessa. Cambia l'ordine e l'impatto della guerra nazionalistica e civile ma rimangono entrambe a testimoniare la personalità scissa della penisola.
Anche questa volta il protagonista è Lorenzo, qui ancora preadolescente e simpatizzante fascista, di cui seguiamo le peripezie standogli attaccati alla spalla. Rispetto al primo romanzo il clima è più familiare, soprattutto per chi è nato e/o vissuto a Bologna (in certi momenti si provano le suggestioni di alcuni film di Avati). Lo vediamo crescere, maturare, risistemare i cocci della sua famiglia e di ciò che gli ha trasmesso, farsi uomo, o almeno mettersi sulla strada buona per diventarlo. Contemporaneamente ci vengono mostrate le dinamiche che porteranno il Regno d'Italia a divenire repubblica. Per buona parte del libro monarchici e fascisti ci vengono mostrati in modo tale da portarci a "tifare" per quest'ultimi, grande forza rivoluzionaria (narrativamente parlando è l'apoteosi dello sguardo obliquo). Non per l'ideologia in sè, naturalmente, ma per ciò che nel romanzo rappresenta: la scatenatrice di passioni, di voglia di libertà, di speranza nel bene comune, nelle persone. Riga dopo riga verranno fuori le viscide capacità delle anguille nostrane assetate di potere, che rendono qualsiasi ideologia mezzo per acquisirne di ulteriore. Brizzi ci mette davanti ai nostri fantasmi. Ci mostra una fantastoria, una fantapolitica. Una foto del possibile incrocio dalle mille strade che ha la Storia per portaci ad un unica meta.
Sono romanzi che parlano di noi. Che ci descrivono limpidamente e ferocemente. Fanno ridere, incazzare, rattristare insieme ai suoi attori. Parlano di eroi e di presunti tale. Di volpi più o meno furbe. D'amori, rancori e sotterfugi. Di vita. E Brizzi è un maestro nel descrivere queste cose, nel farcele toccare.
Spero non vengano strumentalizzati da una parte o dall'altra, perchè ad essere coglioni ci si potrebbe vedere dentro di tutto un po'. In effetti c'è di tutto un po' ma l'uso che l'autore fa di pezzi e personaggi della storia è più che evidente. Vero New Italian Epic. Non importa come gli attori si definiscano, camerati, compagni, patrioti o chissà che altro, perchè certe dinamiche, quando strumentalizzate, portano verso una meta più o meno sempre uguale a se stessa.
Di questi tempi si avverte un enorme bisogno di cantastorie in grado di mostrarci come siamo e dove stiamo andando a finire. Di unire tra loro fili diversi, attivando il sopito. E per queste cose, Bologna, sta mostrando d'esser una fucina di grandiose narrazioni.

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