Piccola perla di cinema italiano per inaugurare il 2010. Peccato la prima fila al cinema e l'annodamento di vertebre cervicali... perlomeno n'è valsa la pena.
Con questa pellicola Rubini si supera, effettuando un ottimo miscuglio dei temi affrontati nei precedenti lavori. Il quieto e tumultuoso scorrere della vita di un paesino pugliese, le dinamiche familiari (e le sue frustrazioni/azioni), l'arte nelle sue espressioni più pure e spontanee e la critica che pretende di conoscerne ogni angolo e sfumatura. Proprio questo ultimo aspetto dev'essere particolarmente caro et indigesto all'autore (così come lo erano i giudici per De Andrè), che già lo aveva trattato in "Colpo d'occhio". La storia ci viene mostrata con gli occhi di un bambino (Gabriele), che ritorna in paese per dare al padre (Ernesto) l'estremo saluto. Ernesto è un artista, che per vivere fa il capostazione.
Un artista frustrato. Proprio a causa di queste sue origini "popolari" e schernito da "dù stronzi" che non saprebbero riconoscere una crosta dal suo formaggio ma che, grazie alla loro posizione sociale, "concedono" ai conpaesani di sapere quale siano l'espressioni artistiche meritevoli. Due merde della peggior specie, insomma.
Per quanto, in certi tratti, lo svolgimento della storia sia prevedibile (il finale è almeno in parte intuibile), ogni sequenza merita di essere gustata e ci accompagna verso il commovente epilogo. A modo suo Ernesto è un eroe tragico. Ancor di più per il modo con cui va incontro alle proprie sconfitte (se così le possiamo chiamare).
Agli occhi di Gabriele è un "uomo nero", mostruoso, cattivo e pericoloso come il sinistro figuro che ogni tanto lo spaventa per le vie del paese, o come lo sono per noi i "grandi detentori della cultura" che sghignazzano e ammiccano, incapaci di assistere alle vere bellezze che li circondano, come la mescolanza di colori che un viaggio in treno può regalare (bellissimo momento padre/figlio), offuscati dalle proprie aridità.
Nulla è quel che sembra. Così nell'arte, così nella vita.
Tra risate, qualche tremito di commozione e tanta riflessione si esce dalla sala provati e soddisfatti. L'eroe tragico riesce a prendersi la sua rivincita, pur nella sconfitta. Riuscendo a dare gioia ed a mostrarsi in tutta la sua grandezza sia ad un amico ormai prossimo alla morte che al figlio, ormai adulto, che ne ha appena salutato il sepolcro.
Film visionario e sorprendente. Con attori all'altezza (finalmente vedo Scamarcio alla prova con un ruolo che non sia: bello, bello e dannato, dannatamente dannato e bello o misteriosamente bello e/o dannato, non se ne poteva più! e in effetti in questa storia mostra quanto possa svariare ed esprimere come attore, al di fuori dell'"universo mocciano"), calati perfettamente nel proprio ruolo.
Una gioia per gli occhi, per i cuori e per le menti.
Con questa pellicola Rubini si supera, effettuando un ottimo miscuglio dei temi affrontati nei precedenti lavori. Il quieto e tumultuoso scorrere della vita di un paesino pugliese, le dinamiche familiari (e le sue frustrazioni/azioni), l'arte nelle sue espressioni più pure e spontanee e la critica che pretende di conoscerne ogni angolo e sfumatura. Proprio questo ultimo aspetto dev'essere particolarmente caro et indigesto all'autore (così come lo erano i giudici per De Andrè), che già lo aveva trattato in "Colpo d'occhio". La storia ci viene mostrata con gli occhi di un bambino (Gabriele), che ritorna in paese per dare al padre (Ernesto) l'estremo saluto. Ernesto è un artista, che per vivere fa il capostazione.
Un artista frustrato. Proprio a causa di queste sue origini "popolari" e schernito da "dù stronzi" che non saprebbero riconoscere una crosta dal suo formaggio ma che, grazie alla loro posizione sociale, "concedono" ai conpaesani di sapere quale siano l'espressioni artistiche meritevoli. Due merde della peggior specie, insomma.
Per quanto, in certi tratti, lo svolgimento della storia sia prevedibile (il finale è almeno in parte intuibile), ogni sequenza merita di essere gustata e ci accompagna verso il commovente epilogo. A modo suo Ernesto è un eroe tragico. Ancor di più per il modo con cui va incontro alle proprie sconfitte (se così le possiamo chiamare).
Agli occhi di Gabriele è un "uomo nero", mostruoso, cattivo e pericoloso come il sinistro figuro che ogni tanto lo spaventa per le vie del paese, o come lo sono per noi i "grandi detentori della cultura" che sghignazzano e ammiccano, incapaci di assistere alle vere bellezze che li circondano, come la mescolanza di colori che un viaggio in treno può regalare (bellissimo momento padre/figlio), offuscati dalle proprie aridità.
Nulla è quel che sembra. Così nell'arte, così nella vita.
Tra risate, qualche tremito di commozione e tanta riflessione si esce dalla sala provati e soddisfatti. L'eroe tragico riesce a prendersi la sua rivincita, pur nella sconfitta. Riuscendo a dare gioia ed a mostrarsi in tutta la sua grandezza sia ad un amico ormai prossimo alla morte che al figlio, ormai adulto, che ne ha appena salutato il sepolcro.
Film visionario e sorprendente. Con attori all'altezza (finalmente vedo Scamarcio alla prova con un ruolo che non sia: bello, bello e dannato, dannatamente dannato e bello o misteriosamente bello e/o dannato, non se ne poteva più! e in effetti in questa storia mostra quanto possa svariare ed esprimere come attore, al di fuori dell'"universo mocciano"), calati perfettamente nel proprio ruolo.
Una gioia per gli occhi, per i cuori e per le menti.
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