domenica 28 febbraio 2010

"Il figlio più piccolo" di Pupi Avati

Pupi Avati si sta dimostrando un regista frettoloso. Un peccato, perchè le buone idee non gli mancano ed anche l'originalità con cui parlare di ciò che lo circonda. Molti suoi film, anche quelli più piacevoli e godibili, lasciano spesso una sensazione di mancata sazietà. Come di un'idea sviluppata a 3/4 (o anche un po' di più, a volte). Con questa pellicola (di cui ha parlato qui), purtroppo, crea una storia interessante rimasta avvolta da molti fili del bozzo creativo, impedendole così di spiegare totalmente ali dai pigmenti interessanti. Un vero peccato.
Forse la sua volontà di mostrare senza giudicare, il tentativo di "antropologizzare" l'Italia di adesso, le sue dinamiche e i suoi attori lasciando chi guarda nella condizione di trarre i propri spunti dagli spaccati che ci fotografa, in certe occasioni lo frena. Non so, generalmente apprezzo molto i suoi film (in particolare per come riesce ad esprimere Bologna) ma quest'ultimo mi ha lasciato in bocca non solo il sapore agrodolce della storia, ma anche la sensazione di aver mangiato una ricetta incompleta. Già con "Gli amici del bar Margherita", che avevo molto apprezzato, mi ero alzato con la sensazione che il grande cast a disposizione avesse risollevato una piccola storia non del tutto cresciuta. In questo caso la sensazione è ancora più forte, così come la differenza tra alcuni attori principali e secondari (la scenata al padre del figlio maggiore, per fare un'esampio, stride per la sua inconsistenza). In ogni caso gli va riconosciuto lo sforzo di non fermarsi al solito ristretto circuito di attori ma di sperimentarne e lanciarne spesso di giovani, dalle interessanti prospettive, in ruoli principali (questa volta il pregevole Nocella in precedenza la straordinaria Rorwacher).
Esco un po' deluso. Tante potenzialità mal espresse. In fondo, la sindrome di Woddy Allen porta a non riuscire sempre a sfornare prodotti fragranti. Sarei curioso di sapere se questa bulimia creativa sia dovuta a necessità economiche o personali.
Prepariamoci al prossimo.

sabato 27 febbraio 2010

"Va, vis ed deviens" di Radu Mihaileanu

"Vai, vivi e diventa..."
Con questa frase una madre saluta il proprio figlio di otto anni affidando la sua salvezza nelle mani di espatrianti etiopi. Siamo a metà degli anni ottanta (da cui, peraltro, fu in generale difficilissimo uscir vivi) e molti falascia fuggono dalla loro terra, in cui carestie e repressioni li stavano decimando, verso il non così amichevole Sudan, dove aerei israeliani sono pronti a trarli in salvo e ad accoglierli nella terra promessa. Il protagonista, Shlomo, straniero tra connazionali, si deve fingere un altro per riuscire ad arrivare a Gerusalemme. Una voltà lì si troverà costretto ad affrontare gli enormi fantasmi che si porta dentro, contornato da quelli di una nazione altrettanto spaccata e frammentata.
Cosa è più importante nel valutare una persona? La nazionalità? La religione? Le idee? Il denaro? Cosa? Sulla carta sembra di parlare di categorie ben distinte che possono portare a distinzioni ben nette e precise. Una specie di scacchiera in cui ogni pezzo ha compiti e funzioni ben precise. Guardando bene, però, il tutto appare molto più incasinato, si scopre con sgomento della dimensionalità di ognuno di questi aspetti e di tanti altri, si tenta di rifugiarsi in un ordine ancora più rigido e "pulito", nella speranza di tener tutto sotto controllo. Ma le persone hanno maschere più ricche e complesse da mostrare, fatte d'infinite combinazioni. Sono accomuntate dal loro essere differenti, indipendenti e imprevedibili; a volte tutto ciò fa paura.
Rispetto agli altri suoi due film, questa volta Mihaileanu s'immerge in tantissime tematiche complesse e articolate, difficili da trattare. Non ci vuole dare risposte, non solo almeno. Ogni personaggio ha le sue particolarità, risorse e debolezze che si sviluppano per tutta la favola della crescita, del diventare, di Shlomo. Ogni personaggio si sviluppa, scelta dopo scelta. Forgia la propria starda come meglio può. La storia di una vita. La storia di popolazioni. La storia dell'uomo. Perlomeno, uno tra i tanti capitoli.
Film ben girato, godevolissimo. Senza pretese di sconvolgere o strabiliare ma dotato di un'intenso desiderio di raccontare una storia. Particolare come tante e per questo preziosa.

mercoledì 24 febbraio 2010

I dolori di un giovane mona (arca)

Pronto papi? Hai visto, che ti dicevo? Secondo! Sono arrivato secondo!
Come dove? A Sanremo, mica quisquilie.
Sì sì, era pieno di belle ragazze, va bene va bene, belle gnocche, ma che c'entra? Non capisci? Sono arrivato secondo!
Nooo, ma che dici? Sconfitti ancora una volta? Il nonno quella volta correva una gara a due. Altri tempi, altra storia. Ed anche i miei tentativi son stati avventati e arcaici. Papi! Non cominciare, ok? Sempre con sta storia del parlar difficile. Guarda che mi viene così, mica mi sforzo!
Eh. Comunque è stato un bel colpo papi, un bel passo avanti. Così la smetteranno di calunniarmi e prendermi in giro. Sì sì, anche la casata, naturale.
La mamma che dice? Ah. Passamela un po'...
Come non mi vuol parlare? Si vergogna? Ah, lei si vergogna? Lasciamo stare và, che se non era per me eravamo ancora là a regolare orologi. Sì, hai capito bene, orologi. No perchè mi avete stancato con le vostre assurde pretese ed aspirazioni, brutti cattivi che non siete altro. Sì hai sentito bene. Brutti e Cattivi! Sempre ha umiliarmi sempre a parlar bene degli altri principini e principessine E Carlo qua e Felipe là, e Vittoria su e Haakon giù. Mi avete proprio rotto i coglioni. Sì, sì hai capito bene! No! Lo dico quanto mi pare e piace. Ma dove credi di vivere, eh! Lo sai in che anno siamo, almeno? Sai che ti dico? Andate affanculo! Che voi, tra galatei ed eticchetta non ci capite proprio un cazzo! Per andare al governo ci si deve aggiornare. Si deve apripre il proprio cuore come ho fatto io. Ci si deve agg-ior-na-re! Siamo nel terzo millennio e la popolarità è tutto. TUTTO!!! Cosa? Ci fischiavano? Lasciali fare, lasciali fare! Vedrai quanti mi ameranno! Tutti mi ameranno! Lo insegna la storia! La Vera storia! Di cui io faccio parte e tu no! Non più! Tutti mi ricorderanno e mi ameranno! Tutti guarderanno a quello che sono stato costretto a subire, si identificheranno, capiranno quanto siano stati cattivi e si pentiranno! Ah, quanto si pentiranno! Saranno costretti ad amarmi, anche senza sapere perché, anzi, proprio per questo! Tu, stai pur là a giocare con le tue monetine e le tue troiette e lasciami fare! Vedrai! E dillo alla mamma! Dille tutto a quella stronza montata!
Come? Il vivavoce?
Ha sentito tutto?
Ah...
Maman?
Oui. Mais oui.
D'accord, d'accord. Chiedo scusa. Escusez-moi maman. Je ne voulais pas...
Lo so. Lo so.
Tanti sacrifici, oui.
Lo so. Lo faccio per noi, lo sai. Per tutti noi.
Sì, sì. L'anno prossimo vinciamo, sennò niente elezioni. Ho già un'ideuzza.
Comment?
Una mia poesia certo.
Comment?
Certo che gli piace. Naturale.
Comment?
Oui, c'est ici.
Te lo passo.
Salut, maman.

(altre diramazioni sull'argomento qui, qui, qui e anche e .

martedì 23 febbraio 2010

"Il golem" di Isaac B. Singer

Proseguo la piccola deviazione sulla "baby-narrativa" con questa piccola rielaborazione yiddish su tematiche quali il potere, la fede e il rapporto che le lega; su episodi biblici quali quello di Adamo ed Eva (chissà perchè ma in moltissime tradizioni la tentazione che porta a caos o punzioni vien sempre dalle insistenze di una donna, mai dal libero arbitrio di chi, tali decisioni, le prende) e sulla storica persecuzione verso il popolo ebraico.
Riguardo all'odio millenario verso gli appartenenti a questa religione, sono recentemente venuto a conoscenza di un curioso aneddoto, una paradossale leggenda popolare nata in paesi dell'Europa orientale (Ucraina, Polonia, Bielorussia e Russia occidentale). Sembra che negli anni seguenti la seconda guerra mondiale sia andata via via creandosi la credenza che Hitler, Lenin e Stalin fossero accomunati dal fatto di essere tutti e tre figli di un genitore ebreo! Una sorta di "Hannibal Rising" ebraico, di dimostrazione della forza di determinate credenze e pregiudizi. Non importa di quali oscenità si macchi una persona, nè verso chi le compia, perché sarà sempre un frutto caduto da uno stesso albero o, come in questo caso, popolo. L'aneddoto è curioso, meriterebbe maggiori approfondimenti. Magari in seguito, con basi maggiori da cui muoversi ed interlocutori più numerosi. Torniamo al racconto.
La storia ci narra le vicende di un rabbino praghese che, per difendere la sua popolazione da evidenti e becere ingiustizie, con l'aiuto di un messaggero divino, crea un gigante d'argilla, una sorta di precursore del mostro di Frankenstein che, dopo aver messo fine all'ingiustizia smetterà di sottostare agli ordini rabbinici e inizierà ad agire secondo una propria, embrionale, volontà, a scontrarsi con le paure che le sue fattezze provocano ed a provarne i conseguenti sentimenti. Una piccola favoletta per introdurre i bambini a concetti quali la diversità, l'integrazione e il rispetto dei sentimenti e della vita altrui ma anche delle conseguenze della disobbedienza ai poteri alti.
Un piccolo tour tra diverse tematiche, molto adatto per chi comincia ad approcciare alla lettura, piacevole per chi già ha incominciato.

lunedì 22 febbraio 2010

La trilogia di Roddy Doyle

Ho sempre apprezzato le qualità narrative di Roddy Doyle. Per quanto mi riguarda, lo ritengo uno dei miei autori preferiti, perlomeno tra quelli anglosassoni, anche grazie alla sua abilità nel trasformare qualsiasi dialogo o situazione, anche i più banali, in qualcosa di incredibilmente reale. Pochi autori mi hanno infuso un tale calore e senso d'intimità, una senso di familiarità così intenso per i personaggi e le loro storie. Bhe... Roddy c'è riuscito. Non voglio dilungarmi nella descrizione delle sensazioni e degli aspetti che ho amato nei suoi "libri per adulti". Vorrei consigliare caldamente la splendida trilogia "per bambini" che ha saputo creare. Libri paradossali, dotati di una peculiare ironia, in cui accade tutto e il contrario di tutto. Cacche vendute e pestate, giri del mondo con scorcatoie improbabili, eccentricità strabordanti e un ritmo narrativo impetuoso a dir poco. Certo, superata la sorpresa del primo volumetto, si può rimanere un po'delusi da quelli successivi (che, in effetti, sono un pò meno trascinanti). Ma tutto ciò è detto da occhi ormai "corrotti" dalla pubertà e dalle sue conseguenze.
Che significa?
Non lo so, mi sembrava simpatico da dire.
Mha... secondo me è una boiata...
E se anche fosse? Il blog è mio e ci scrivo quello che mi pare.
E io smetto di leggerti.
Fai pure, tanto non mi legge nessuno.
Ci credo, gurda lì cosa scrivi...
Posso andare avanti?
Certo.
Grazie.
Non c'è di che.
Hai finito?
...
Bene.
Dicevamo. Visti con gli occhi di un bambino, questi racconti sono realmente fantastici. Tre allegre favolette da gustare un poco per volta. Una buona occasione per insegnare che il divertimento ha tante facce, non tutte dotate di schermo o pulsanti, per viaggiare anche senza uscire di casa o per uscire di casa e viaggiare con occhi più curiosi.
Che altro aggiungere?
Già, che altro?
Zitto tu. Non voglio esser prolisso.
E allora taglia.
Ho detto zitto!!! Uffa... Dicevamo...
Perso il filo?

In ogni caso, sono un bel regalo da fare o da farsi. Una zolletta per addolcirsi il the.
Finito?

Sicuro?
Ti ho detto di sì.
Bravo. Era ora.

"44 Scotland street" di Alexander McCall Smith

Finalmente un romanzo inaspettato, da un autore per troppo tempo ignorato e sfuggito. Purtroppo la modalità con cui scelgo un libro(un mix tra l'intriganza della copertina e la curiosità della storia riassunta) è spesso alquanto vergognosa e superficiale, ma non ci posso fare niente. Sto crcando di curarmi dal terribile morbo dell'Aesteticam Praegiuditiis, ma non posso dire di esserne ancora totalmente uscito. Curiosamente, proprio dall'ironica penna di questo irlandese dallo sguardo affabile, per bocca di uno dei personaggi più eccentrici del romanzo, è uscita una rilessione/ammonimento verso questo virus così esteso:

Avranno anche avuto lineamenti regolari, quelle persone, ma erano comunque brutte perchè in genere erano fatue. La regolarità, senza un valore metafisico a sostenerla, una bellezza dell'anima o del carattere, era più deludente, e repellente, di un'onesta casualità, di un umano disordine. Era più deludente perchè prometteva qualcosa che in realtà non c'era (...) Era superficiale e illusoria.

Ecco, forse ritrita, ma mai banale. Perfetta per descrivere il modo con cui troppo spesso non mi sono avvicinato ad un libro. E con le persone? Questa è un'altra storia, in quel caso il morbo è forma di un'estesissimo e variegato soffrire. Una patina apatica, stretto vestito di relazioni (a)sociali. Fortunatamente gli anticorpi sono tanti e ricchi di sorprese.
Ma come dicevo, è un'altra storia, torniamo a quella in questione. Il romanzo è un meraviglioso spaccato di vita degli inquilini di una palazzina edimburghese (ma si dice così). Una serie di fotografie di desolazioni e rovelli contemporanei, condito da una splendida, inaspettata ed irresistibile ironia. Da questa palazzina si dipanano più storie che si alternano ed intrecciano in uno splendido valzer dalle olteplici sfumature. Se con Welsh avevamo conosciuto il lato "oscuro", "marcio" e "dannato" (quante virgolette!!!) di Edimburgo, con McCall Smith ne osserviamo uno apparentemente più comune. Ma dietro ogni porta sono contenute storie, personalità ed eccentricità del tutto diverse, parte di un cosmo ben più esteso di quello scozzese. Assistiamo a nevrosi, desideri, trambusti sentimentali; a svariate sfaccettature di un poliedro in continua mutazione. Si gioca su cliches, li si rovescia. Si guarda Edimburgo e la Scozia con gli occhi di un innamorato. Si può amare una città? Non vedo perché no. Pregi, difetti, orrori, splendori, desolazioni e fiducia sono ben disordinati davanti ai nostri occhi. Nella sua imperfezione, tutto diviene perfetto. Giusto così com'è fatto.
Romanzo piacevolissimo che culla e smuove dolcemente il pensiero del lettore.
Mi sento pronto a superar "l'ostacolo" delle altre copertine.

sabato 13 febbraio 2010

La botta del maratoneta

Quasi alla cieca.

Quello che devo fare.

Terra sfalda ai piedi, lame stridenti di un vento mai pago. Occhi persi nella caligine, muscoli scollegati dagli arti. Una bomba ad orologeria pulsa in gola, l’ultima risorsa inchiodata alla mano. Pura disperazione trascina alla meta. Troppo stanco per riposare. Troppo stanco per tornare indietro.

Ostinato arrancare. Incedere sconclusionato.

Una meta troppo lontana per essere immaginata.

Monte Ming. Il Leggendario. Il Mai Visto.

Eppure esiste, steso ai miei piedi. Mole enciclopedica, mi sovrasta.

Eppure mi sfugge, effimero mi sfuma.

Umido tropicale a pugnalar le ossa. Intorno, sferzate di ghiaccio. Finché l’ultimo respiro non decida di esser tale.


- Prova questo, pazzo che non sei altro. Se non funzioni così… ma sei sicuro di farcela?

Avvicina il bussolotto. Sigla azzurra su sfondo bianco.

N I E

- In che consisterebbe di preciso?

- Roba sperimentale. Unica nel suo genere. Mix tra vitamine, sali minerali e sostanze biochimiche varie. Facciam prima a dire cosa non c’è dentro. L’effetto è assicurato.

- D’accordo, ma è sicura? Non è che mentre corro mi prende un colpo? Va bene tutto ma spiegati meglio. Sta sigla per esempio, che mi sta a significare?

- Neurostimolatore a Implemento Esponenziale, a prova di bomba. Anche se ti parte il motore, la macchina continua a correre. Non so se mi spiego…

Un ticchettio a scandire il silenzio.

Da una ghiandola si delinea il profilo della preoccupazione

- Controindicazioni?

- Tranquillo, per ora nulla che non possa essere gestito. Allucinazioni, iperventilazione o reazioni de panza, tutto qua. Tu piuttosto, sei sicuro di voler provare? Non è più grande di te sta roba?

- Tranquillo Jakup, mi conosci no? Eppoi che fretta c’è? Non ho mica scadenze. Voglio solo arrivare in fondo, chessarà mai?


Quarantadue chilometri. Da Filippide a Gebrselassie, per non contare Baldo e il pastore Spyros. Quarantadue volte quarantadue, o erano cinquantaquattro? Vacca boia che fatica, della cima nemmeno l’ombra. Da quanto sto correndo? Soprattutto, dove? Respira respira che ti piglia un colpo. Appennino, Africa, Himalaya, gli Altai, chi cazzo si ricorda? Neanche la scalata del Re era stata così faticosa, ma vuoi mettere? E dir pur che alcuni passi gli avevo già solcati. 4387, 4387, ammasso che si staglia verso il cielo. Onda anomala, magnitudo titanica. Quanti giorni mancano? Sabbia nelle scarpe, sabbia nelle fauci. Ad inseguir un mito si trasmuta in ombra di fantasma. Quattromilatrecentottantasette, mica cazzi. Da quanto manco? Stufo delle sterpaglie, delle grotte, dei saliscendi. Un crampo alla mano. Ossigeno in riserva. Quasi quasi lo mangio. Marcia sostenuta. Respiro non pervenuto. La mia ossessione. Quarantadue volte quarantadue o era cinquantaquattro? Vedo la cima, pendenza buona fin lì. Che male alle gambe. Son già partito? Intorno, il mondo. Salire per osservarlo da un’altra angolazione. Pause e deviazioni? Possibile. Manca l’ossigeno. Quasi quasi lo mangio.


...secondo un antica leggenda mandarina, percorrere l’itinerario nelle condizioni sopra esposte, porterebbe al raggiungimento della vetta, luogo d’illuminazione e di ricongiungimento con la Grande Madre. Una simile concezione è stata riscontrata in alcune antiche danze iniziatiche irochesi ed in riti di passaggio in talune sette post-pagane. Tuttavia, affinché l’elevazione, il passaggio, la consacrazione spirituale trovino compimento, è necessario che il candidato sia precedentemente entrato in possesso di specifiche potenzialità, tramite cui…

(ritaglio tratto dal diario di U. B.

Origine: sconosciuta)


Segui il fiume, serpente lungo disteso. Segui il fiume e ritrova le origini. Fino in cima. Panorama onnisciente. Ho fame. La chicca di Jakup mi trascina in alto, magnetica e mi strappa una molecola di vita dietro l’altra. Come in una rotaia indifferente alla dinamite. Seguo la prima stella, un faro ad indicar la via. Novello re magio. Solo, con una moltitudine a vorticarmi intorno. Ci sono. Il posto giusto. La roccia mi rifiuta e comincia a forgiare sentieri dell’odio. Bestia che si sveglia, ferita. Insofferente alla mia curiosità. Antropologo scambiato per colonizzatore. Solo da un tempo indefinito. La montagna mi guarda e risponde. Due proiettili infuocati mi avvertono, con ali di fiamma e parabole incerte. Lo spazio vortica. Dal sottosuolo uno stridore, cacofonia incomprensibile, ribelle. Libera. Un ossessione ad accompagnarla «Trane, Trane, Trane…», come un tam tam dalla foresta nera. Qualcuno mi segue. Un televisore rotto in cerca pace. Qualcuno mi osserva. Amanti baffuti dentro un’utilitaria. O forse il contrario? LASCIATEMI IN PACE!!! Gridi. Acceleri. Porti i tendini e i muscoli sull’orlo dello squarcio. Tutto intorno si oscura. Ti osservi fuggire da una mandria di facoceri, alla cui testa uno struzzo. Che cazzo succede? Dietro una roccia, sulla sabbia, l’arabo bianco piange il suo amor moresco sui lembi del mantello. Nella giungla circostante, una dea guida il suo branco verso una terra sfiorata dal sangue. Torrenti scarlatti si dipanano ai piedi. Il grande fiume si trasforma in serpente. Il ribelle al tuo fianco reprime il terrore, rovescia l’adrenalina e scaglia il suo tomahawk. Un temporale intestino ti riporta alla fame. Dalla rugiada s’alza un chiosco di Hamburger-U, memento dell’archetipo che porti in grembo. Dalla cima ormai prossima scende Albert Rice, in sella a un cavallo Parmigianino, bersagliandoti di fuochi e luci. «C’est part du spectacle, mona d’un mona! ! De Italian style!» grida, dissolvendosi oltre i nervi ottici. Al bar s’apre una discussione sullo stile del funambolo, sull’appropriatezza dei soprannomi. Poi la schedina prende il sopravvento. A destra, un sanbernardo ti chiede indicazioni, ha perso la via di casa, a sinistra il Butoba imprime ogni cosa, implacabile. Accanto, una Warwick spezzata con una parrucca in capo. Uno scalpo. Un giovane in preda dei suoi fantasmi culla il figlio. Alle prime esplosioni di dinamite lo scaglia, deformandolo in Balrog. Cariche di arabi apolidi, cariche di cinghiali (ma non erano facoceri?), cariche di pellerossa in cerca dei propri scalpi, veneziani e turchi ottomani, eretici per scelta, eretici per l’occasione, supereroi trogloditi, partigiani dai mille tratti. Da un pozzo, il ghigno di Carafa, l’artiglio si stende a ghermirti. Tra i piedi, un blocco di cemento. Un grido dalla scarpata «Capemmerda!!!». Lancio d’orpelli dal tenente Lippolis. Finalmente incontri la mina dell’imolese, ti libri oltre te stesso. Senza Radici. Occhi di Esther, di Dana, del vecchio Capponi, Sidney, JSJ. Occhi di storia osservano la tua linea gaussiana vorticare incessante.

Dopodichè, il buio.


Un piccolo filo scende a solleticare il viso.

Il corpo indolenzito, il pensare stordito. Macedonia di spiriti a solleticare la mente.

Brusio tutt’intorno. Dove diavolo sono?

Sopra, nuvole e zolle di cielo.

Sotto, dura roccia, materasso di steli.

In piedi, ritorni alla vita.

In cima. Ce l’ho fatta. L’ho scalato tutto di corsa, primo a toccare Punta Ming…

Sfarfallio di palpebre. Camera messa a fuoco. Carrellata lenta.

Folla tutt’intorno, una rete in fabbricazione, sguardo oltre una nube.

Un refolo e appare.

Cresce. La roccia cresce.

Brivido per la colonna. Dove cazzo sta la cima?

Una mano porge una corda. Una mano la stringe.

Vediamo un po’ dove arriva.

Quello che devo fare.

Un po’meno alla cieca.


(ringrazio il cinguettìo che ha ispirato questo piccolo delirio)