Nonostante il trailer, tanto poetico quanto criptico, questo oggetto cinematografico non identificato (esiste la definizione UCO?) oscilla tra l'essere film, l'essere documentario, l'essere video artistico, l'essere video antropologico. E anche tanti altri essere. Un macigno, lento e maestoso che scorre docile sullo schermo, senza fretta alcuna, portando lo spettatore in Calabria, nel vibonese, all'interno del Parco naturale regionale delle Serre. Osservando lo svolgersi dello "spirito" che permea valli e boschi, ci si ritrova testimoni di antiche usanze decise ad esser tramandate. E qui l'occhio deve farsi attento, l'orecchio rilassato, posto all'ascolto, ogni senso rivolto alle suggestioni intense e spiazzanti della catena di storie che riempie lo schermo. Difficilie da raccontare od esporre. Difficile. Un punto di partenza potrebbe essere la frase di Pitagora trasmessaci da Filolao Abbiamo in noi quattro vite incastrate l'una dentro l'altra. L'essenza minerale, vegetale, animale e razionale. Ma anche così, ci ritroveremmo davanti ad una falsa partenza.
Il regista, per una curiosa e fortunata (per noi spettatori) combinazione d'intenti e d'informazioni colte starda facendo, ci dona la storia di un vecchio pastore, di un bianco capretto traballante, di un grande abete bianco e del divenire che porta il legno a farsi carbone. Una concatenazione di vita e di morte, mutazioni di stato ed essenza. Ogni episodio è autoconclusivo e strettamente legato agli altri. I punti di vista molteplici. Ci ritroviamo in possesso di vecchi occhi superstiziosi, sbiaditi dal sole, di alieni occhi ocra, rivolti allo scorrere delle nuvole, di legnosi occhi di foglia, carezzati dal vento, e di oscuri e fumosi occhi cristallizati in un cumulo di gas e terra. E nell'assordante silenzio di cui sono intrisi tutti gli attimi di ottima fotografia sentiamo rimbobmare i suoni di questa terra: una polifonia minimale di cigolii, brezze, fruscii, gorgoglii, diversi in ogni stagione, in cui le voci degli abitanti non sono altro che echi lontani, indistinguibili.
La potenza straniante del silenzio, dello scorrere del tempo.
Un tuffo di un'ora e mezza nell'odierna antica vita di Serra San Bruno.
Per chi è abituato al coas imperituro della città o del cinema da multisala sembrerà una crudele tortura, un'oblio senza nome.
E' un insieme di generi. Di stili narrativi, di sguardi obliqui. Preziosa fotografia di un tempo che sfugge, pur continuando a scorrere.
E' un sacco di cose, una meraviglia che inchioda. Occhi cuore orecchie.
Un inno al silenzio, che silenzio non è. Al sottobosco di voci e storie che ci ostiniamo a lasciar scorrere, come un rigagnolo senza importanza.
Religiosa fotografia della vita, di alcuni suoi aspetti.
Meglio essere informati, preparati, prima di sedersi al buio della sala. E' un peccato ritrovarsi distratti, tesi alla noia. Una volta fuori, sembra d'essersi persi qualcosa d'indefinibile, attimi di poesia sensorea.
Un vero peccato.
Ma, come ho detto, non ero pronto. Non del tutto.
Comunque uno dei migliori film mai visti.
Il regista, per una curiosa e fortunata (per noi spettatori) combinazione d'intenti e d'informazioni colte starda facendo, ci dona la storia di un vecchio pastore, di un bianco capretto traballante, di un grande abete bianco e del divenire che porta il legno a farsi carbone. Una concatenazione di vita e di morte, mutazioni di stato ed essenza. Ogni episodio è autoconclusivo e strettamente legato agli altri. I punti di vista molteplici. Ci ritroviamo in possesso di vecchi occhi superstiziosi, sbiaditi dal sole, di alieni occhi ocra, rivolti allo scorrere delle nuvole, di legnosi occhi di foglia, carezzati dal vento, e di oscuri e fumosi occhi cristallizati in un cumulo di gas e terra. E nell'assordante silenzio di cui sono intrisi tutti gli attimi di ottima fotografia sentiamo rimbobmare i suoni di questa terra: una polifonia minimale di cigolii, brezze, fruscii, gorgoglii, diversi in ogni stagione, in cui le voci degli abitanti non sono altro che echi lontani, indistinguibili.
La potenza straniante del silenzio, dello scorrere del tempo.
Un tuffo di un'ora e mezza nell'odierna antica vita di Serra San Bruno.
Per chi è abituato al coas imperituro della città o del cinema da multisala sembrerà una crudele tortura, un'oblio senza nome.
E' un insieme di generi. Di stili narrativi, di sguardi obliqui. Preziosa fotografia di un tempo che sfugge, pur continuando a scorrere.
E' un sacco di cose, una meraviglia che inchioda. Occhi cuore orecchie.
Un inno al silenzio, che silenzio non è. Al sottobosco di voci e storie che ci ostiniamo a lasciar scorrere, come un rigagnolo senza importanza.
Religiosa fotografia della vita, di alcuni suoi aspetti.
Meglio essere informati, preparati, prima di sedersi al buio della sala. E' un peccato ritrovarsi distratti, tesi alla noia. Una volta fuori, sembra d'essersi persi qualcosa d'indefinibile, attimi di poesia sensorea.
Un vero peccato.
Ma, come ho detto, non ero pronto. Non del tutto.
Comunque uno dei migliori film mai visti.
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