Pupi Avati si sta dimostrando un regista frettoloso. Un peccato, perchè le buone idee non gli mancano ed anche l'originalità con cui parlare di ciò che lo circonda. Molti suoi film, anche quelli più piacevoli e godibili, lasciano spesso una sensazione di mancata sazietà. Come di un'idea sviluppata a 3/4 (o anche un po' di più, a volte). Con questa pellicola (di cui ha parlato qui), purtroppo, crea una storia interessante rimasta avvolta da molti fili del bozzo creativo, impedendole così di spiegare totalmente ali dai pigmenti interessanti. Un vero peccato.
Forse la sua volontà di mostrare senza giudicare, il tentativo di "antropologizzare" l'Italia di adesso, le sue dinamiche e i suoi attori lasciando chi guarda nella condizione di trarre i propri spunti dagli spaccati che ci fotografa, in certe occasioni lo frena. Non so, generalmente apprezzo molto i suoi film (in particolare per come riesce ad esprimere Bologna) ma quest'ultimo mi ha lasciato in bocca non solo il sapore agrodolce della storia, ma anche la sensazione di aver mangiato una ricetta incompleta. Già con "Gli amici del bar Margherita", che avevo molto apprezzato, mi ero alzato con la sensazione che il grande cast a disposizione avesse risollevato una piccola storia non del tutto cresciuta. In questo caso la sensazione è ancora più forte, così come la differenza tra alcuni attori principali e secondari (la scenata al padre del figlio maggiore, per fare un'esampio, stride per la sua inconsistenza). In ogni caso gli va riconosciuto lo sforzo di non fermarsi al solito ristretto circuito di attori ma di sperimentarne e lanciarne spesso di giovani, dalle interessanti prospettive, in ruoli principali (questa volta il pregevole Nocella in precedenza la straordinaria Rorwacher).
Esco un po' deluso. Tante potenzialità mal espresse. In fondo, la sindrome di Woddy Allen porta a non riuscire sempre a sfornare prodotti fragranti. Sarei curioso di sapere se questa bulimia creativa sia dovuta a necessità economiche o personali.
Prepariamoci al prossimo.
Forse la sua volontà di mostrare senza giudicare, il tentativo di "antropologizzare" l'Italia di adesso, le sue dinamiche e i suoi attori lasciando chi guarda nella condizione di trarre i propri spunti dagli spaccati che ci fotografa, in certe occasioni lo frena. Non so, generalmente apprezzo molto i suoi film (in particolare per come riesce ad esprimere Bologna) ma quest'ultimo mi ha lasciato in bocca non solo il sapore agrodolce della storia, ma anche la sensazione di aver mangiato una ricetta incompleta. Già con "Gli amici del bar Margherita", che avevo molto apprezzato, mi ero alzato con la sensazione che il grande cast a disposizione avesse risollevato una piccola storia non del tutto cresciuta. In questo caso la sensazione è ancora più forte, così come la differenza tra alcuni attori principali e secondari (la scenata al padre del figlio maggiore, per fare un'esampio, stride per la sua inconsistenza). In ogni caso gli va riconosciuto lo sforzo di non fermarsi al solito ristretto circuito di attori ma di sperimentarne e lanciarne spesso di giovani, dalle interessanti prospettive, in ruoli principali (questa volta il pregevole Nocella in precedenza la straordinaria Rorwacher).
Esco un po' deluso. Tante potenzialità mal espresse. In fondo, la sindrome di Woddy Allen porta a non riuscire sempre a sfornare prodotti fragranti. Sarei curioso di sapere se questa bulimia creativa sia dovuta a necessità economiche o personali.
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