sabato 13 febbraio 2010

La botta del maratoneta

Quasi alla cieca.

Quello che devo fare.

Terra sfalda ai piedi, lame stridenti di un vento mai pago. Occhi persi nella caligine, muscoli scollegati dagli arti. Una bomba ad orologeria pulsa in gola, l’ultima risorsa inchiodata alla mano. Pura disperazione trascina alla meta. Troppo stanco per riposare. Troppo stanco per tornare indietro.

Ostinato arrancare. Incedere sconclusionato.

Una meta troppo lontana per essere immaginata.

Monte Ming. Il Leggendario. Il Mai Visto.

Eppure esiste, steso ai miei piedi. Mole enciclopedica, mi sovrasta.

Eppure mi sfugge, effimero mi sfuma.

Umido tropicale a pugnalar le ossa. Intorno, sferzate di ghiaccio. Finché l’ultimo respiro non decida di esser tale.


- Prova questo, pazzo che non sei altro. Se non funzioni così… ma sei sicuro di farcela?

Avvicina il bussolotto. Sigla azzurra su sfondo bianco.

N I E

- In che consisterebbe di preciso?

- Roba sperimentale. Unica nel suo genere. Mix tra vitamine, sali minerali e sostanze biochimiche varie. Facciam prima a dire cosa non c’è dentro. L’effetto è assicurato.

- D’accordo, ma è sicura? Non è che mentre corro mi prende un colpo? Va bene tutto ma spiegati meglio. Sta sigla per esempio, che mi sta a significare?

- Neurostimolatore a Implemento Esponenziale, a prova di bomba. Anche se ti parte il motore, la macchina continua a correre. Non so se mi spiego…

Un ticchettio a scandire il silenzio.

Da una ghiandola si delinea il profilo della preoccupazione

- Controindicazioni?

- Tranquillo, per ora nulla che non possa essere gestito. Allucinazioni, iperventilazione o reazioni de panza, tutto qua. Tu piuttosto, sei sicuro di voler provare? Non è più grande di te sta roba?

- Tranquillo Jakup, mi conosci no? Eppoi che fretta c’è? Non ho mica scadenze. Voglio solo arrivare in fondo, chessarà mai?


Quarantadue chilometri. Da Filippide a Gebrselassie, per non contare Baldo e il pastore Spyros. Quarantadue volte quarantadue, o erano cinquantaquattro? Vacca boia che fatica, della cima nemmeno l’ombra. Da quanto sto correndo? Soprattutto, dove? Respira respira che ti piglia un colpo. Appennino, Africa, Himalaya, gli Altai, chi cazzo si ricorda? Neanche la scalata del Re era stata così faticosa, ma vuoi mettere? E dir pur che alcuni passi gli avevo già solcati. 4387, 4387, ammasso che si staglia verso il cielo. Onda anomala, magnitudo titanica. Quanti giorni mancano? Sabbia nelle scarpe, sabbia nelle fauci. Ad inseguir un mito si trasmuta in ombra di fantasma. Quattromilatrecentottantasette, mica cazzi. Da quanto manco? Stufo delle sterpaglie, delle grotte, dei saliscendi. Un crampo alla mano. Ossigeno in riserva. Quasi quasi lo mangio. Marcia sostenuta. Respiro non pervenuto. La mia ossessione. Quarantadue volte quarantadue o era cinquantaquattro? Vedo la cima, pendenza buona fin lì. Che male alle gambe. Son già partito? Intorno, il mondo. Salire per osservarlo da un’altra angolazione. Pause e deviazioni? Possibile. Manca l’ossigeno. Quasi quasi lo mangio.


...secondo un antica leggenda mandarina, percorrere l’itinerario nelle condizioni sopra esposte, porterebbe al raggiungimento della vetta, luogo d’illuminazione e di ricongiungimento con la Grande Madre. Una simile concezione è stata riscontrata in alcune antiche danze iniziatiche irochesi ed in riti di passaggio in talune sette post-pagane. Tuttavia, affinché l’elevazione, il passaggio, la consacrazione spirituale trovino compimento, è necessario che il candidato sia precedentemente entrato in possesso di specifiche potenzialità, tramite cui…

(ritaglio tratto dal diario di U. B.

Origine: sconosciuta)


Segui il fiume, serpente lungo disteso. Segui il fiume e ritrova le origini. Fino in cima. Panorama onnisciente. Ho fame. La chicca di Jakup mi trascina in alto, magnetica e mi strappa una molecola di vita dietro l’altra. Come in una rotaia indifferente alla dinamite. Seguo la prima stella, un faro ad indicar la via. Novello re magio. Solo, con una moltitudine a vorticarmi intorno. Ci sono. Il posto giusto. La roccia mi rifiuta e comincia a forgiare sentieri dell’odio. Bestia che si sveglia, ferita. Insofferente alla mia curiosità. Antropologo scambiato per colonizzatore. Solo da un tempo indefinito. La montagna mi guarda e risponde. Due proiettili infuocati mi avvertono, con ali di fiamma e parabole incerte. Lo spazio vortica. Dal sottosuolo uno stridore, cacofonia incomprensibile, ribelle. Libera. Un ossessione ad accompagnarla «Trane, Trane, Trane…», come un tam tam dalla foresta nera. Qualcuno mi segue. Un televisore rotto in cerca pace. Qualcuno mi osserva. Amanti baffuti dentro un’utilitaria. O forse il contrario? LASCIATEMI IN PACE!!! Gridi. Acceleri. Porti i tendini e i muscoli sull’orlo dello squarcio. Tutto intorno si oscura. Ti osservi fuggire da una mandria di facoceri, alla cui testa uno struzzo. Che cazzo succede? Dietro una roccia, sulla sabbia, l’arabo bianco piange il suo amor moresco sui lembi del mantello. Nella giungla circostante, una dea guida il suo branco verso una terra sfiorata dal sangue. Torrenti scarlatti si dipanano ai piedi. Il grande fiume si trasforma in serpente. Il ribelle al tuo fianco reprime il terrore, rovescia l’adrenalina e scaglia il suo tomahawk. Un temporale intestino ti riporta alla fame. Dalla rugiada s’alza un chiosco di Hamburger-U, memento dell’archetipo che porti in grembo. Dalla cima ormai prossima scende Albert Rice, in sella a un cavallo Parmigianino, bersagliandoti di fuochi e luci. «C’est part du spectacle, mona d’un mona! ! De Italian style!» grida, dissolvendosi oltre i nervi ottici. Al bar s’apre una discussione sullo stile del funambolo, sull’appropriatezza dei soprannomi. Poi la schedina prende il sopravvento. A destra, un sanbernardo ti chiede indicazioni, ha perso la via di casa, a sinistra il Butoba imprime ogni cosa, implacabile. Accanto, una Warwick spezzata con una parrucca in capo. Uno scalpo. Un giovane in preda dei suoi fantasmi culla il figlio. Alle prime esplosioni di dinamite lo scaglia, deformandolo in Balrog. Cariche di arabi apolidi, cariche di cinghiali (ma non erano facoceri?), cariche di pellerossa in cerca dei propri scalpi, veneziani e turchi ottomani, eretici per scelta, eretici per l’occasione, supereroi trogloditi, partigiani dai mille tratti. Da un pozzo, il ghigno di Carafa, l’artiglio si stende a ghermirti. Tra i piedi, un blocco di cemento. Un grido dalla scarpata «Capemmerda!!!». Lancio d’orpelli dal tenente Lippolis. Finalmente incontri la mina dell’imolese, ti libri oltre te stesso. Senza Radici. Occhi di Esther, di Dana, del vecchio Capponi, Sidney, JSJ. Occhi di storia osservano la tua linea gaussiana vorticare incessante.

Dopodichè, il buio.


Un piccolo filo scende a solleticare il viso.

Il corpo indolenzito, il pensare stordito. Macedonia di spiriti a solleticare la mente.

Brusio tutt’intorno. Dove diavolo sono?

Sopra, nuvole e zolle di cielo.

Sotto, dura roccia, materasso di steli.

In piedi, ritorni alla vita.

In cima. Ce l’ho fatta. L’ho scalato tutto di corsa, primo a toccare Punta Ming…

Sfarfallio di palpebre. Camera messa a fuoco. Carrellata lenta.

Folla tutt’intorno, una rete in fabbricazione, sguardo oltre una nube.

Un refolo e appare.

Cresce. La roccia cresce.

Brivido per la colonna. Dove cazzo sta la cima?

Una mano porge una corda. Una mano la stringe.

Vediamo un po’ dove arriva.

Quello che devo fare.

Un po’meno alla cieca.


(ringrazio il cinguettìo che ha ispirato questo piccolo delirio)

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