lunedì 7 marzo 2011

"Anatra all'arancia meccanica" di Wu Ming

Avviso ai naviganti: questo non è un libro di Wu Ming, o meglio, dovrebbe esserlo e in un certo senso lo è anche, ma allo stesso tempo  riesce ad essere altro.
Chi si aspettasse un còlossal in costume alla De Gaudentiis o  un romanzo sugli stili a cui la narrativband ha abituato, senza saziare ancora, prenderebbe un granchio enorme. Basta un'occhiata alla copertina e al titolo per capirlo.
Allora che cos'è questo starano oggetto a metà tra narrativa e fantacucina?
E' un memoriale del decennio passato. Una raccolta di fotografie degli "anni zero" dalle prospettive sgembe ed inaspettate. La parte più laboratoriale e libera della loro officina artigiana. Una concatenazione di sperimentazioni, brevi brani bellissimi dotati di vita propria, che nel susseguirsi e rieccheggiarsi a vicenda, in modi funambolici, ben chiari o invisibili, si fa sinfonia.
Tommaso De Lorenzis, nel testo che la apre, consiglia di leggere questa antologia, con la Nona del "Ludovico Van" in sottofondo. L'accostamento alla pellicola nata dalla penna di Burgess non è casuale, nè dovuto a facilonerie da scribacchini senza smalto. Il dispiegarsi dei racconti, pagina dopo pagina, acquista una dinamicità tale da richiamare realmente l'ultima fatica di Beethoven. L'unica differenza sta nella dislocazione dei primi due movimenti, che in questo caso si trovano mescolati tra loro a tal punto, da cominciare direttamente dal secondo, per poi riassemblarsi e riordinarsi nelle varie fughe che portano verso il tripudio finale.
L'overture, naturalmente, è di De Lorenzis.

Primo movimento
La sinfonia, dopo il riscaldamento degli strumenti, comincia direttamente dal Molto vivace, con i primi cinque racconti. Per chi non ha li mai letti on-line, l'effetto potrebbe essere quello di uno schiaffo improvviso, di una ginocchiata nei denti; la presa per il culo di uno chef anarchico verso palati ormai troppo raffinati. I racconti, infatti, sono molto ruvidi, impastati di un'ironia vibrante e sfacciata, quasi acida. Scritti tra l'estate del 2000 e la primavera 2001, lampeggiano rosso fuoco, quasi allertati dagli avvenimenti del luglio e settembre seguenti. Il mondo del cinema, dell'editoria e delle mobilitazioni sociali in Italia, sono intervallati da due grandissimi racconti apocrifi sui personaggi della Disney: il nazistoide Topo Lino e un incazzattissimo Anatrino prendono coscienza della propria natura e sconvolgono il mondo ipocritamente ovattato creato negli states negli anni '20.
All'epoca la band era agli inizi, straripante adrenalina ed entusiasmo. Danno l'idea di aver macinato un numero esorbitante di parole, in quel periodo, ad un ritmo tale da far impallidire King. Lo stile narrativo di primo acchito può far storcere il naso. Più trattoria che ristorante di classe per gli occhi boriosi di snob letterari. Il sapore è rustico, vero, da trattoria. Ma stiamo parlando di una signora trattoria! Di quelle in cui far venir mattina in un lampo.
Riallineati gli occhi e le orecchie, le pagine iniziano a scorrere implacabili, lasciando deliziati ma ancora affamati una volta conclusa ogni storia.
Pronti alla seconda portata.



Secondo movimento
Il secondo movimento si rilassa, in apparenza. L'ironia scorticante si lima le unghie, si anfratta tra le pieghe delle parole e del tempo (in questo caso i racconti vanno dal '03 al' inizio del '08). Il tono rimane Allegro ma non troppo, un poco maestoso. Si cerca di riassestarsi dallo stordimento iniziale. Con un racconto sull'allevamento e la macellazione dei maiali che impone una riconsiderazione radicale della propria alimentazione. La seguente full immersion eco-mitologica riassesta le budella; i muscoli e le ganasce si fan più rilassati, carezzati dalla inesorabilità poetica del brano. Ma è con i fumi oppiacei di "In Like Flynn" che gli aficionados dei romanzi si ritrovano su binari più familiari. Sì è già oltre metà antologia, ma la strada verso la fine è ancora lunga.

A cavallo tra il secondo ed il terzo movimento si trova "Gap99", racconto troppo breve per la sua bellezza, in cui il collettivo arriva dritto al cuore della questione sicurezza/razzismo. E' una di quelle storie che si vorrebbe leggere ancora e ancora, di cui si vorrebbero frugare i personaggi, vederli respirare per chilometri d'inchiostro. Ma detto quel che c'è da dire, finisce. Nel punto preciso in cui doveva farlo. Lasciando chi legge obbligato a proseguire.

Terzo movimento
A questo punto ciò che stava nascosto sotto una patina d'ironia ed ottima scrittura squarcia le pagine e si mostra. Cambia il ritmo. Cambiano il tono, il gusto. I colori. Il terzo movimento è un doppio movimento in un unico gesto: Adagio molto cantabile, andante moderato. Lo stile è nel pieno della maturità, il ritmo narrativo rallenta, coglie nuovamente impreparati e lascia letteralemente di merda. Avevo già letto il racconto "Momodou" in un altra antologia, trovandolo carino ma non all'altezza di altre storie. L'importanza del contesto... In questo caso si resta ghiacciati. Dall'esempio di un ottima gestione di situazioni e dei rapporti umani dalla difficile codificazione alla più nera delle storie, in un riavvolgimento delle scene fino alle radici di una comunità generata dal razzismo. Anzi due, (...) perchè in assenza di quest'ultimo, nemmeno la comunità delle vittime sarebbe la stessa. Finito il conto alla rovescia veniamo graziati. Gli autori ci porgono una bombola d'ossigeno, anzi due. Due storie scritte in maniera esemplare, cariche di contenuti non così scontati come sembrerebbe al lettore frettoloso, che ci accompaganano impreparati alle mazzate del tripudio finale.
 
Finale
Sì perchè "L'istituzione branco" è qualcosa che prende davvero alle spalle. Sei lì tranquillo che ti leggi un'ottima antologia, a letto o in poltrona, al caldo, che magari fuori nevica pure, e ti trovi alle prese con un racconto in versi da mandare giù intero e crudo. Ispirato al caso di Eluana Englaro, riesce a toccare corde delicatissime, descrivendo l'ignobile baraccone mediatico di quei cadaveri ambulanti che pretendono d'insegnare al prossimo cosa sia la vita. E lo riesce a fare usando contemporaneamente grande dolcezza e ferocia, dosandole con destrezza e piazzando comunque in giro perle di un'ironia nera di piombo. Questo per cominciare il finale. La descrizione di disfacimento e marciume che negli ultimi anni sembra impennarsi.
Nel crescere della vertigine si toccano l'incomunicabilità tra istituzioni e le realtà sociali di un territorio (e chi, nel mezzo, tenta di far capire ai primi come funzioni il secondo) e, in un'atmosfera dalle tinte orwelliane, la questione dell'acqua pubblica. Sono storie brevi, irreali (?) ma di una vividezza abbacinante. Come spiegato in quarta di copertina, sono miti di un futuro anteriore, ci soffiano gelidi sul collo, rivoluzionano ogni sinapsi sopita.
E ad un tratto, le macerie si manifestano, in paesaggi piatti, insalubri, tornati selvaggi e selvatici. Ci aggiriamo tra cadaveri di comunità, lingue e ricordi, in una Bassa post-Crisi in cui le distanze tra luoghi e memorie si ririempiono di se stesse. Pessimismo? Neanche a parlarne. Se c'è una cosa che contraddistingue Wu Ming è la bellezza presente all'interno e dopo ogni sconfitta. Il suo perdurare. Dietro ogni battaglia, ogni catastrofe, c'è il proseguimento della vita, il suo riorganizzarsi lungo tutto il continuum. Se nell'esplosione finale del "Ludovico Van" si cantava un inno alla gioia, a concludere l'antologia e lo splendido racconto "Arzèstula" c'è un vero e proprio inno alla vita ed alle narrazioni che la popolano.

Insomma, "Anatra all'arancia meccanica" è un libro estremamente scorrevole, irto di ostacoli, trabocchetti e finezze che non può lasciare insoddisfatti. Romanzo trasversale degli anni appena passati con un occhio ben fisso al futuro; ennesima prova di chi sia(no) Wu Ming, per chi, come alcuni giornali apparentemente privi di catene, continua ostinatamente a non capire. Di riflesso, sono proprio loro a dircelo:
E allora, chi sono questi Wu Ming? Sono degli stronzi, dei guastafeste, dei rompicoglioni. Sono gli sturalavandini della narrativa, idraulici liquidi che sgorgano le condutture. Sono la bustina che si getta nel water per sciogliere i residui della fossa biologica. Sono gente che si prende soddisfazioni. Sono le menti migliori della degenerazione. Sono quello che ci vuole. E in queste parole non c'è un accento che non sia indispensabile.
Comincia il viaggio, cazzo. Mani sulle palle e via andare!

[Qua trovate una presentazione e qui e quo ulteriori recensioni]

2 commenti:

  1. Bellissima recensione, che ha fra l'altro il pregio di "recuperare" la IX sinfonia del Ludovico Van. E' sempre stata lì a disposizione, ma dapprima le celebrazioni per la caduta del Muro, e poi il fatto di essere stata adottata come inno ufficiale dalle istituzioni neoliberiste dell'UE, ne hanno un po' appannato l'immagine. It's time to bring it back home.

    RispondiElimina
  2. Grazie Salvatore. In effetti è un peccato, la IX resta comunque un patrimonio, a prescindere da chi e da come la usi.
    Ricordo ancora l'esegesi fatta da un mio amico compositore, che ne sottolineava sfumature, rimandi, significati che rimangono "sotterranei" a chi vi si accosta con occhio non da studioso. Un'esperienza gran-dio-sa!

    RispondiElimina

I commenti su questo blog sono liberi ed aperti a tutti (esclusi troll o "piromani" da web). Da chi commenta in forma anonima è gradita una qualsiasi forma di riconoscimento (firma, sigla, nick), renderà più facile parlarci.