martedì 1 dicembre 2009

"Altai" di Wu Ming

Cosa si può aggiungere su questo gruppo di artigiani che non sia stato già detto?
Come parlarne senza risultare ridondanti, offuscati dall'ammirazione e dai brividi che le loro opere possono infondere?
Ammetto di non essere la persona più indicata a parlare di un'opera di Wu Ming, essendo da parecchi anni un loro forte estimatore, ma non posso non riconoscere, per l'ennesima volta, di essermi trovato immerso, pagina dopo pagina e riga doopo riga, in luoghi, sensazioni, odori e pensieri di difficile esplicazione. WM, con "Altai", sono riusciti nell' "impresa" di riportarci nel "mondo di Q." creando una storia in possesso di vita e luce propria, non dipendente dalla loro opera prima, al massimo arrichita dalle vibrazioni dell'opera prima che si possono percepire tra le righe. Il collettivo continua a crescere, a evolversi e a raffinarsi. In ogni loro pagina si possono trovare riferimenti al passato, alla contemporaneità, al futuro, limpidi e sinceri. Certo, de gustibus non disputandum est, e sarebbe ipocrtita volermi porre nella condizione di "critico assoluto" dei loro romanzi. La densità dei loro contenuti, il ritmo della loro scrittura, le loro idee, et. et. et... possono risultare pesanti, non essere condivisi o apprezzati. Ritengo però che chiunque abbia un minimo di senso critico (e autocritico) non possa non riconoscere il valore che sta dietro ai loro parti (non vi è mai capitato di non apprezzare un libro riconoscendone comunque il valore?). Mi viene quindi da ridere leggendo commenti simili a quello inespresso da Giordano Tedoldi su Libero? (per la serie "al peggio non c'è mai fine" vedi: www.libero-news.it/articles/view/595101+%22Il+collettivo%22+%22arrivato+al+capolinea%22&cd=1&hl=en&ct=clnk&gl=us&client=safari) scritti col solo intento di screditare il non gradito, di murare qualsiasi tipo di confronto di dialogo, usando (per citare, forse impropriamente, WM1 in " New italian epic, pag 96) parole "intrise di disprezzo per le espressioni culturali" ritenute "più plebee" e che non possono essere accostate all'alta letteratura che persone come questa, automasturbatori di un non meglio identificato "parnaso di stronzi", pretendono di considerare unica, immutabile e imperitura. Detto questo mi sembra il caso di tornare al libro.
"Altai" ci riporta al mondo di "Q." in maniera fortunatamente inaspettata. Certo, ritroviamo vecchi personaggi a cui avevamo imparato ad affezzionarci, ma quasi non riusciamo a toccarli. O almeno, non come avevam fatto in precedenza (aspetto allo stesso tempo frustrante e gratificante). Sono passati quindici anni dall'arrivo dei nostri affezionatissimi a Costantinopoli e tante cose sono cambiate. Non l'utilizzo dell'odio verso i "diversi" come forma di controllo o i vari mezzi, perlopiù violenti, che il potere (tirranico, fascista, totalitario...) può utilizzare per compiersi o affermarsi. Non importa a quale religione si faccia parte, come la s'interpreti o quanto ci si voglia dimostrare tolleranti e magnanimi. A modo suo, ogni persona che ci portano a conoscere cerca il bene (proprio, altrui, universale...) ma per fare questo necessita dell'esistenza del "male", del dolore, dell'ingiustizia.
Questa volta, però, lo stile e le dinamiche della storia appaiono differenti rispetto ai romanzi precedenti, lasciando chi legge, almeno inizialmente, piacevolmente stranito. La riflessione, trasversale nelle loro opere, su giustizia, potere e ideali continua la sua evoluzione senza pretendere di dare una risposta definitiva (pur essendo percepibile l'idea degli autori a riguardo). La ricerca del collettivo di guardare la storia da altri punti di vista (o dal verso "sbagliato"), per quanto criticata da chi ne riconosce una soltanto (unica, immutibale e imperitura), è una boccata d'ossigeno in un mondo che ci vorrebbero far credere univoco. Inoltre, nonostante il punto di vista del romanzo sia sempre quello di Emanuele/Manuel (e già questa è un grande novità), anche la figura della donna appare ancor più approfondita. Già in "Manituana" la sua capacità generativa (e per generare o rigenerare c'è bisogno che qualcosa crolli o si disfi, come in un ciclo), la sua stabilità e il suo punto di vista "alieno" erano state apprezzate molto di più che nei precedenti romanzi (in particolare in "Q.", di "54" mi ricordo poco e preferisco non parlare, almeno non prima di una rilettura) in personaggi come Molly Brant o Esther. In "Altai" le figure femminili si mostrano in tutta la loro complementarietà rispetto a quelle maschili, sottolineando la necessità che entrambe si guardino e vedano se si vuole tentare di evitare il peggio. Gli occhi della storia (i nostri, quelli di Manuel) si accorgono di questo aspetto ma non sono capaci di realizzarlo in tempo.
Anche la figura del protagonista cambia in questa storia. Se precedentemente abbiamo conosciuto eroi tanto epici (nel senso più omerico del termine) quanto tragici (shakespearianamente parlando) nel corso dei romanzi i nuovi venuti sono più realistici, più combattuti, tanto fragili quanto saldi (più romantici forse?) nel ricercare le loro utopie e nelle loro scelte. Non c'è più posto per i soli ideali, si deve far spazio anche alla disillusione. Il mondo prosegue e, guardandosi solo indietro od avanti, si rischia di perdere il senso del presente e del tutto (ma è possibile averlo?) e la possibilità di incidere concretamente sulla strada da percorrere senza esserne sopraffatti.
Col tempo Wu Ming diviene come il buon vino, migliora. E necessita di meno parole, ma sempre più curate e potenti, per farci comprendere con feroce intensità il significato delle sue narrazioni, delle sue allegorie. Per darci qualcosa su cui ragionare.
Ottimo libro. Ricco. Denso. Commovente.
Da rileggere.
(stralci di letture qui, qui e qui)

1 commento:

  1. dalla tua recensione mi viene ancor più voglia di leggerlo.....

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