lunedì 6 settembre 2010

sKOla - echi da una riforma (I parte)

Eravamo trentacinque. Neanche tanti a dir la verità. Oggi ci si trova ad essere un po' di più ma non troppo. È un fatto, ormai abitudine.
Allora no.
Quell'anno eravamo in trentacinque e l'aula, gialla e malandata, corsia di un ospedale senza cure per sintomi sempre più evidenti e numerosi, ci andava un po' stretta. Per carità, non che fosse piccola, avevamo visto di peggio. Adeguatamente arredata sarebbe riuscita a contenere i mobili necessari ad un ampio monolocale, angolo cucina e bagno inclusi. Invece a quelle quattro mura la sorte aveva riservato una serie di banchi e sedie non sufficienti a contenerci.
Non fu facile inizialmente, poi il tutto da amara consuetudine si trovò tinto d’ironia. È tinto d’ironia anche ora che i colori sfumano e gli attori sbiadiscono. Solo gli echi di voci, stridori e tonfi, che avevano martellato in continuazione, deformandole, finestre e pareti, faticano a sperdersi. Quasi che la pietra li custodisca, gelosa. O forse perché mai cessati.
Se si accosta l’orecchio, al di sotto del fragore delle lezioni si sentono le voci dei professori e al di sotto ancora le voci di allora, quando si scelse tutto questo e i nostri occhi fatui da quattordicenni osservavano senza vedere lo sgretolamento in mezzo a cui ci avevano posti.

Fu Renato, il nipote del sindaco, il primo a parlare, indignato di non trovar da sedere in un luogo di grane prestigio come il nostro liceo, sorretto da crepe e muffe di indubbio valore storico. Aprì la bocca mostrando il suo incisivo appuntito, sputando fuori parole seguge di quelle paterne. Mai, dall’anno scolastico 1860-61, tra le ombre dell’Ospedale della Morte, ci si era trovati in condizioni tanto cenciose e imbarazzanti. Cos’era accaduto, chiedeva, per rendere così decadente un cotal faro della città?
Si erano poi levati Lucacarlo e il Fengiuz a dar manforte, nella speranza di bloccare fin da subito le lezioni, minacciando scandalo, trasferimenti, denunce finché Tommaso, ben oltre il suono della campanella, era ciondolato in classe mormorando scuse di circostanza. Qualche sbirciata sonnolenta da dietro i rasta e si era seduto in terra, al centro dell’aula, sbloccando così la catatonia della professoressa, arpionata ai braccioli (tale comportamento era ancor più inaccettabile delle proteste dei tre ragazzotti, in particolare se fatto da uno sbrindelloso del genere. Ma aveva idea di dove si trovava lo stordito?).
Riprese le redini della classe, ci si era concentrati sulle possibili soluzioni. Di sedere in due su alcune sedie, neanche a parlarne (né uno in braccio all’altro, né con una chiappa per uno), in primo luogo perché ritenuto scomodo oltremisura e in secondo perché non tutte le sedie sembravano poter sopportare carichi di tal genere. Tommaso aveva proposto di sedersi a terra a rotazione, infondo c’erano ventisette posti e per lui andava bene star sempre in terra, appoggiato al muro, che si sentiva comunque bene. Così facendo gli altri compagni sarebbero stati a terra più o meno un’ora al giorno o un giorno alla settimana. Fu sbattuto fuori mentre stava ancora spiegando la sua idea, ripresa velocemente da Renato: potremmo saltare a turno un giorno, otto alla volta. Dopo un rapido calcolo la professoressa bocciò l’idea. Non si potevano fare più di cinquantun giorni d’assenza, pena la bocciatura diretta. Troppo rischioso per dei bravi ragazzi volenterosi come loro.
Ci si scervellò per tutta l’ora, finché non si presentò, paonazzo più che mai, il prof di fisica, da poco vicepreside, che dopo aver vagliato ogni proposta sbuffò che a turno, ogni giorno, otto studenti di ambo i sessi sarebbero rimasti in piedi per l’intera durata delle lezioni, fino a quando il ministero non avesse provveduto a fornire banchi e sedie nuovi.
L’idea di portarle da casa, perlomeno le sedie, sembrava non aver sfiorato nessuno, o forse non era stata ritenuta degna del buon nome dell’istituto.
Finalmente potevano cominciare le lezioni, per chi fosse riuscito a sentirle.

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