Qualsiasi cosa si pensi di Stephen King, bisogna ammettere che è un autore che crea scompiglio.
Senza fare il minimo sforzo, peraltro.
Facendo semplicemente quello che gli riesce meglio, scrivere, riesce a creare spaccature non indifferenti riguardo alla propria figura.
Personalmente mi ritrovo tra chi lo ritiene uno tra i più grandi scrittori contemporanei. Per i temi che tratta, per come li tratta e per gli innumerevoli legami tra tutte (o quasi) le sue opere che, con il passare del tempo, possono essere considerate un unico stimolante corpus che si arricchisce sempre di più di spunti, indizi ed interconnessioni tra le più improbabili (da un recente mini-intervista (qui) le sinapsi di molti fan sono letteralmente schizzate alla ricerca di nuovi fili).
Naturalmente, come per ogni cosa sia più o meno intellegibile, c’è chi non si trova d’accordo con me; chi non fa parte della folta schiera degli ammiratori (e per fortuna, mi verrebbe da aggiungere) e ritiene King un autore banale, noioso, ripetitivo, eccessivamente prolisso o buono da leggere giusto sotto l’ombrellone.
Bene, niente di male fin qui, i gusti son gusti.
Ma un problemino in realtà c’è.
Perché King resta un autore che scrive tanto, vende tanto e di sé fa parlare ancora di più e se c’è una cosa che i nuovi media ci hanno insegnato e dato la possibilità di fare è proprio a parlare tanto, anche di ciò che non conosciamo bene. E di condividere non solo pensieri o parti preziose di sé ma anche le più grandi brutture che ci portiamo dentro.
Inizialmente questo post voleva essere simile ai tanti altri fatti in precedenza e parlare di un libro. Dell’ultimo di King, per la precisione: Full dark, no stars (Notte buia, niente stelle). Un’antologia molto ben fatta, composta da quattro storie crude, dure e senza orpelli che, per come ci ha abituati, sarebbero potute benissimo essere quattro distinti romanzi, guadagnandoci sicuramente dal punto di vista delle suggestioni o dei colpi di scena ma perdendo così il magnifico crescendo di una storia letta di seguito all'altra; l'apnea di tensioni e sconquassi interiori che portano senza fiato alla fine del tunnel, la postilla, in cui zio Stevie questa volta picchia duro ed in ogni direzione, senza far sconti a nessuno. Nemmeno ai suoi affezionatissimi Fedeli Lettori, solitamente massaggiati o rincuorati, prima di chiudere l'ultima pagina. Questa volta si toglie ogni sasso dalla scarpa, anche i più grossi.
Scende nel “campo di battaglia” in cui pretenziosi criticiucoli dal naso pieno di letame sentenziano sulle sue opere, sul suo lavoro, in modo puramente gratuito e privo di qualsivoglia contenuto o riflessione. Osteggiatori che sembrano non possedere altro che invidia e pregiudizio e la convinzione che una persona che vende tanto non possa anche scrivere bene, come se ogni artista degno di far parte dell’Olimpo della Letteratura dovesse essere l’archetipo dello scrittore povero, dal linguaggio criptico e altisonante e semi-sconosciuto ai più.
A costoro King risponde in modo schietto e diretto. Perché raccontare storie non è cosa da fare con i piedi; a capo chino e ossequioso; con l’occhio rivolto ai possibili zeri da stampare sul conto. E' un compito da prendere maledettamente sul serio; un squarcio liberatorio di realtà, di ricerca del senso di ciò che ci accade e circonda. Deve mordere alle viscere, scatenare reazioni. Senza seghe mentali gonfie d'ipocrisia autocompiaciuta e, sotto sotto, frustrata.
Le sue parole non sembrano rivolte solo a chi guerreggia sulla bontà o meno della sua scrittura ma anche a chi si lancia in “guerre civili” riguardo al suo operato. Come, per esempio, i kingofili, tra cui quest’estate è nata una discussione in rete, uno scontro duro e velenoso in cui, armati della più tossica ironia (quella cinica, ipocrita e codarda), sono volate frecciate, offese malcelate dietro a smile e faccine di vario genere e logorroiche dissertazioni incorniciate in un polveroso dizionarismo.
Come dicevo, a fine antologia l’autore parla anche a noi Fedeli Lettori con durezza, pungolando possibili autocompiacenze (tristi veli verso personalissime fragilità o miserie) con un dubbio sulla fondamentale bontà celata o meno dentro ognuno di noi.
Sbruffonaggine? Supponenza?
Non credo.
Con questa frase tagliente King sembra dirci quello che in altri modi provò a fare Wallace. Ci invita ad interrogarci su noi stessi, su ciò che ci circonda, sulla straordinarietà contenuta nell’ordinario.
Come detto nel risvolto di copertina i
Ma non è tutto qua. Non è solo questione di uomo e donna.
Si parla anche delle piccole fragilità che possono portare ad orrori meno eclatanti, delle impalcature traballanti issate per celare gli uomini bassi in abito giallo che si annidano in ogni persona e ci circondano giorno dopo giorno.
E una volta usciti dal buio, zio Stevie ci ricorda di guardare anche “l’altra metà del cielo” che è in ognuno di noi.
Che altro aggiungere? L'antologia è eccellente, non c’è bisogno di monologhi di apprezzamento.
Va letta.
L’autore raggiunge ottimamente lo scopo prefissato.
Scuoterci dall’interno per poi farci pensare.
Mostrando ancora una volta che la vecchia Buick continua sfornare ottime creature.
[Altre info sul libro, oltre a splendidi esempi di osteggiatori dall'ego ormai fragile, si possono trovare qui, qui ed anche qui]
Senza fare il minimo sforzo, peraltro.
Facendo semplicemente quello che gli riesce meglio, scrivere, riesce a creare spaccature non indifferenti riguardo alla propria figura.
Personalmente mi ritrovo tra chi lo ritiene uno tra i più grandi scrittori contemporanei. Per i temi che tratta, per come li tratta e per gli innumerevoli legami tra tutte (o quasi) le sue opere che, con il passare del tempo, possono essere considerate un unico stimolante corpus che si arricchisce sempre di più di spunti, indizi ed interconnessioni tra le più improbabili (da un recente mini-intervista (qui) le sinapsi di molti fan sono letteralmente schizzate alla ricerca di nuovi fili).
Naturalmente, come per ogni cosa sia più o meno intellegibile, c’è chi non si trova d’accordo con me; chi non fa parte della folta schiera degli ammiratori (e per fortuna, mi verrebbe da aggiungere) e ritiene King un autore banale, noioso, ripetitivo, eccessivamente prolisso o buono da leggere giusto sotto l’ombrellone.
Bene, niente di male fin qui, i gusti son gusti.
Ma un problemino in realtà c’è.
Perché King resta un autore che scrive tanto, vende tanto e di sé fa parlare ancora di più e se c’è una cosa che i nuovi media ci hanno insegnato e dato la possibilità di fare è proprio a parlare tanto, anche di ciò che non conosciamo bene. E di condividere non solo pensieri o parti preziose di sé ma anche le più grandi brutture che ci portiamo dentro.
Inizialmente questo post voleva essere simile ai tanti altri fatti in precedenza e parlare di un libro. Dell’ultimo di King, per la precisione: Full dark, no stars (Notte buia, niente stelle). Un’antologia molto ben fatta, composta da quattro storie crude, dure e senza orpelli che, per come ci ha abituati, sarebbero potute benissimo essere quattro distinti romanzi, guadagnandoci sicuramente dal punto di vista delle suggestioni o dei colpi di scena ma perdendo così il magnifico crescendo di una storia letta di seguito all'altra; l'apnea di tensioni e sconquassi interiori che portano senza fiato alla fine del tunnel, la postilla, in cui zio Stevie questa volta picchia duro ed in ogni direzione, senza far sconti a nessuno. Nemmeno ai suoi affezionatissimi Fedeli Lettori, solitamente massaggiati o rincuorati, prima di chiudere l'ultima pagina. Questa volta si toglie ogni sasso dalla scarpa, anche i più grossi.
Scende nel “campo di battaglia” in cui pretenziosi criticiucoli dal naso pieno di letame sentenziano sulle sue opere, sul suo lavoro, in modo puramente gratuito e privo di qualsivoglia contenuto o riflessione. Osteggiatori che sembrano non possedere altro che invidia e pregiudizio e la convinzione che una persona che vende tanto non possa anche scrivere bene, come se ogni artista degno di far parte dell’Olimpo della Letteratura dovesse essere l’archetipo dello scrittore povero, dal linguaggio criptico e altisonante e semi-sconosciuto ai più.
A costoro King risponde in modo schietto e diretto. Perché raccontare storie non è cosa da fare con i piedi; a capo chino e ossequioso; con l’occhio rivolto ai possibili zeri da stampare sul conto. E' un compito da prendere maledettamente sul serio; un squarcio liberatorio di realtà, di ricerca del senso di ciò che ci accade e circonda. Deve mordere alle viscere, scatenare reazioni. Senza seghe mentali gonfie d'ipocrisia autocompiaciuta e, sotto sotto, frustrata.
Le sue parole non sembrano rivolte solo a chi guerreggia sulla bontà o meno della sua scrittura ma anche a chi si lancia in “guerre civili” riguardo al suo operato. Come, per esempio, i kingofili, tra cui quest’estate è nata una discussione in rete, uno scontro duro e velenoso in cui, armati della più tossica ironia (quella cinica, ipocrita e codarda), sono volate frecciate, offese malcelate dietro a smile e faccine di vario genere e logorroiche dissertazioni incorniciate in un polveroso dizionarismo.
Come dicevo, a fine antologia l’autore parla anche a noi Fedeli Lettori con durezza, pungolando possibili autocompiacenze (tristi veli verso personalissime fragilità o miserie) con un dubbio sulla fondamentale bontà celata o meno dentro ognuno di noi.
…sarò lieto di riportarti fuori al sole. Anch’io sono contento di andarci, perché credo che la maggior parte della gente sia fondamentalmente buona. Io so di esserlo.
È di te che non sono del tutto certo.
Sbruffonaggine? Supponenza?
Non credo.
Con questa frase tagliente King sembra dirci quello che in altri modi provò a fare Wallace. Ci invita ad interrogarci su noi stessi, su ciò che ci circonda, sulla straordinarietà contenuta nell’ordinario.
Come detto nel risvolto di copertina i
quattro nerissimi romanzi brevi raccolti in questo libro parlano di donne uccise, seviziate o comunque "rimesse al loro posto". E' in corso, nel nostro Occidente, una guerra contro "l'altra metà del cielo". La combattono maschi frustrati, impauriti, resi folli dalla perdita del loro potere.
Ma non è tutto qua. Non è solo questione di uomo e donna.
Si parla anche delle piccole fragilità che possono portare ad orrori meno eclatanti, delle impalcature traballanti issate per celare gli uomini bassi in abito giallo che si annidano in ogni persona e ci circondano giorno dopo giorno.
E una volta usciti dal buio, zio Stevie ci ricorda di guardare anche “l’altra metà del cielo” che è in ognuno di noi.
Che altro aggiungere? L'antologia è eccellente, non c’è bisogno di monologhi di apprezzamento.
Va letta.
L’autore raggiunge ottimamente lo scopo prefissato.
Scuoterci dall’interno per poi farci pensare.
Mostrando ancora una volta che la vecchia Buick continua sfornare ottime creature.
[Altre info sul libro, oltre a splendidi esempi di osteggiatori dall'ego ormai fragile, si possono trovare qui, qui ed anche qui]
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