Henry Smart è tornato, a chiudere i conti. Tutti quelli che gli competevano perlomeno. Al resto ci penseranno gli altri.
Dopo la bomba della notizia che da ieri impazza per la rete (e viene allegramente ignorata dai media) ho cercato di rilassarmi con gli ultimi giorni di vita del caro Henry, eroe dalla lingua affilata e dallo sguardo triste.
Inutile dire che, chiusa l'ultima pagina, non sono riuscito ad addormentarmi per un bel pezzo, risucchiatto da voci irlandesi, dalle mille inflessioni, e dalle grida di chi non può sopportare il disprezzo crescente verso l'alerità, che con leggerezza glaciale viene normalizzato ed impacchettato.
Ci sarà spazio per questo libro nelle biblioteche? Per questa trilogia torrenziale che, con i suoi alti e bassi, riesce comunque a far vibrare dal profondo chi le si accosti?
Doyle ci riporta in Irlanda, dopo tent'anni di jazz e praterie, riuscendo a farcene attravaersare un'altra cinquantina con un'intensità che rasenta l'incredibile.
Provate a spiegare la questione irlandese dell'ultimo secolo. Provate pensare a quato indietro si dovrebbe andare per comprendere l'inizio di quelle lotte. Doyle, in un paragrafo ce lo spiega:
Già nei romanzi precedenti, in particolare nell'ottimo primo capitolo, siamo posti in condizione più che laterale, rispetto allo svolgersi della Storia. Tra fogne, campagne, vicoli e bettole osserviamo lo svolgersi dell'azione con l'indefessa onnipotenza di chi, riamanendone sempre ai margini, tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità di verità.
Ma questa volta l'onnipotenza del passato deve cedere il passo a ciò che in precedenza si poteva cogliere solo di rimbalzo. Per quanto il titolo in italiano si concentri sull'eroicità dell'inossidabile Herny Smart (il cui significato resta comunque discutibile), l'originale in inglese non lascia scampo: si parla di sconfitte, di una Repubblica Morta.
Rispetto ai capitoli precedenti, questa volta assistiamo al lento irrigidimento di un corpo e di una mente che non riescono più a sostenere le passioni che ne alimentavano il fuoco. La prospettiva a cui siamo costretti ad abituarci pagina dopo pagina è quella di un vecchio, costretto ad affrontare una realtà non così diversa da come l'aveva lasciata, con occhi via via più estranei e disillusi.
Tra un vuoto di memoria e l'altro, scopre le dinamiche di cui è stato artefice e burattino, dovendo accettarsi non più come Vecchio intorno a cui tutto ruota, ma come semplice comparsa in un mondo, in un paese, più grandi di lui, nonostante siano da lui fortemente simboleggiati.
Il titolo in italiano, perciò, nonostante si discosti totalmente da quello originale, risulta ancor più potente e significativo. La vita di Henry è stata quella di un eroe di altri tempi. Intorno a cui tutto ruotava e su cui ogni cosa si reggeva. Il deus ex machina di se se stesso.
Tornato a casa, però, sarà costretto a riconoscersi simulacro di un tempo che fu, buono soltanto per dare una spinta all'opinione politica, all'identità nazionale attorno alla cui definizione tutto sembra ruotare, grazie ai suoi strascichi da mitologema.
Contemporaneamente, l'Eroe svuotato si dimostrerà in grado di continuare a combattere, a lasciare il proprio segno, a mettere al servizio le proprie capacità, per ciò che lo circonda più da vicino e che nei precedenti romanzi era riuscito appena ad intravedere.
Una riflessione profonda sull'umanità, sul concetto d'eroe, sulla socialità e sull'Irlanda scritta con la solita maestria. Grande conclusione di una splendida trilogia, da cui, anche senza essere descritti, i personaggi strabordano e prendono vita.
Un Doyle ad altissimi livelli.
Inutile dire che, chiusa l'ultima pagina, non sono riuscito ad addormentarmi per un bel pezzo, risucchiatto da voci irlandesi, dalle mille inflessioni, e dalle grida di chi non può sopportare il disprezzo crescente verso l'alerità, che con leggerezza glaciale viene normalizzato ed impacchettato.
Ci sarà spazio per questo libro nelle biblioteche? Per questa trilogia torrenziale che, con i suoi alti e bassi, riesce comunque a far vibrare dal profondo chi le si accosti?
Doyle ci riporta in Irlanda, dopo tent'anni di jazz e praterie, riuscendo a farcene attravaersare un'altra cinquantina con un'intensità che rasenta l'incredibile.
Provate a spiegare la questione irlandese dell'ultimo secolo. Provate pensare a quato indietro si dovrebbe andare per comprendere l'inizio di quelle lotte. Doyle, in un paragrafo ce lo spiega:
Le guerre si potevano vincere o perdere, oppure finivano e basta: le lotte invece non finivano mai. Le guerre erano orribili, ma una lotta era sempre nobile - soprattutto quando il nemico era uno dei grandi eserciti del mondo e i tuoi erano appena un centinaio di uomini e donne. E quando l'origine poteva essere fatta risalire al passato, passando per il Vietnam, la Seconda guerra mondiale e la Guerra d'indipendenza, fino ad arrivare al 1916, e se necessario spingersi ancora più indietro arrivando ai feniani, alla Grande carestia e agli irlandesi uniti, alle picche e alle parrucche della rivoluzione francese, a Cromwell e Drogheda, a Elisabetta, alla prima colonia e allo sbarco dei normanni nel 1169, e poi di nuovo avanti attraverso Cromwell, per tornare alla Thatcher. Nel 1985, la lotta durava da ottocentosedici anni.Un "indiero tutta -poi sempre avanti" di poche righe che, anche al meno esperto di storia irlandese, riesce a farne percepire la sfibrante pesantezza.
Già nei romanzi precedenti, in particolare nell'ottimo primo capitolo, siamo posti in condizione più che laterale, rispetto allo svolgersi della Storia. Tra fogne, campagne, vicoli e bettole osserviamo lo svolgersi dell'azione con l'indefessa onnipotenza di chi, riamanendone sempre ai margini, tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità di verità.
Ma questa volta l'onnipotenza del passato deve cedere il passo a ciò che in precedenza si poteva cogliere solo di rimbalzo. Per quanto il titolo in italiano si concentri sull'eroicità dell'inossidabile Herny Smart (il cui significato resta comunque discutibile), l'originale in inglese non lascia scampo: si parla di sconfitte, di una Repubblica Morta.
Rispetto ai capitoli precedenti, questa volta assistiamo al lento irrigidimento di un corpo e di una mente che non riescono più a sostenere le passioni che ne alimentavano il fuoco. La prospettiva a cui siamo costretti ad abituarci pagina dopo pagina è quella di un vecchio, costretto ad affrontare una realtà non così diversa da come l'aveva lasciata, con occhi via via più estranei e disillusi.
Tra un vuoto di memoria e l'altro, scopre le dinamiche di cui è stato artefice e burattino, dovendo accettarsi non più come Vecchio intorno a cui tutto ruota, ma come semplice comparsa in un mondo, in un paese, più grandi di lui, nonostante siano da lui fortemente simboleggiati.
Il titolo in italiano, perciò, nonostante si discosti totalmente da quello originale, risulta ancor più potente e significativo. La vita di Henry è stata quella di un eroe di altri tempi. Intorno a cui tutto ruotava e su cui ogni cosa si reggeva. Il deus ex machina di se se stesso.
Tornato a casa, però, sarà costretto a riconoscersi simulacro di un tempo che fu, buono soltanto per dare una spinta all'opinione politica, all'identità nazionale attorno alla cui definizione tutto sembra ruotare, grazie ai suoi strascichi da mitologema.
Contemporaneamente, l'Eroe svuotato si dimostrerà in grado di continuare a combattere, a lasciare il proprio segno, a mettere al servizio le proprie capacità, per ciò che lo circonda più da vicino e che nei precedenti romanzi era riuscito appena ad intravedere.
Una riflessione profonda sull'umanità, sul concetto d'eroe, sulla socialità e sull'Irlanda scritta con la solita maestria. Grande conclusione di una splendida trilogia, da cui, anche senza essere descritti, i personaggi strabordano e prendono vita.
Un Doyle ad altissimi livelli.
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