Ad aprile siamo andati al cinema con maggiore frequenza rispetto al solito. Due film italiani [in realtà tre ma il terzo, nel caso, compete a domusorea], tra la commedia, la denuncia e riflessione del punto a cui siamo arrivati, molto diversi per stile, ritmo e contenuti ma accomunati da alcuni aspetti di fondo, quasi complementari. [occhio perchè da qui in avanti c'è il rischio di spoiler vaganti]
Si parla delle diverse fragili singolarità che compongono la moltitudine dell'esistenza, di come ci si può porre nei suoi confronti: passivamente o mossi dalla necessità di contribuire a spezzare l'inaridume del byt (concetto ben spiegato qui al minuto 8:39 da Wu Ming 1) che la contraddistingue. Sono film densi di tentativi di condurre, di smuovere l'enorme ameboide in cui ristagnamo ma anche delle diverse modalità con cui si palesa l'abitudine ad essere condotti; ci sono personaggi che non si rassegnano all'appiattimento generale e ognuno a modo suo cerca di lasciare un segno che non sia uno sfregio, di dare una smossa.
Di reagire al senso d'inadeguatezza che lo attanaglia.
Si parla delle diverse fragili singolarità che compongono la moltitudine dell'esistenza, di come ci si può porre nei suoi confronti: passivamente o mossi dalla necessità di contribuire a spezzare l'inaridume del byt (concetto ben spiegato qui al minuto 8:39 da Wu Ming 1) che la contraddistingue. Sono film densi di tentativi di condurre, di smuovere l'enorme ameboide in cui ristagnamo ma anche delle diverse modalità con cui si palesa l'abitudine ad essere condotti; ci sono personaggi che non si rassegnano all'appiattimento generale e ognuno a modo suo cerca di lasciare un segno che non sia uno sfregio, di dare una smossa.
Di reagire al senso d'inadeguatezza che lo attanaglia.
Partiamo da Boris, buona realizzazione cinematografica di una serie molto ben riuscita, in cui ci viene ampliata la visione grottesca del mondo del cinema e della televisione, ambienti che diventano strumenti allegorici, amplificatori simbolici del contemporaneo, mostrato tramite un affresco caotico ed ampio di condizioni e realtà. Uno degli aspetti singolari delle serie era la quasi totale mancanza di un protagonista. Ognuno dei personaggi, nell'evolversi della storia, acquistava o perdeva peso, alternandosi tra primissimo piano e sfondo, riuscendo così a dare alla storia un respiro ed una molteplicità di punti di vista unici. Nel corso del tempo invece il protagonista assoluto della scena è diventato Renè Ferretti, regista dalle grandi idee ed ambizioni (forse anche capacità, chissà) che, dopo anni di obbligata bassa mediocrità con lavori a cazzo di cane entra in crisi professionale/esistenziale. Dopo anni di pilota automatico spezza il loop apatico che lo fa arrancare da un set all'altro, crolla e si chiude.
Sfinito. Sconfitto. Inadeguato.
Come spezzare una concatenazione di merda così dilagante da apparire senza ritorno? Come ritrovare un senso al proprio operato ed alla propria esistenza?
Sfinito. Sconfitto. Inadeguato.
Come spezzare una concatenazione di merda così dilagante da apparire senza ritorno? Come ritrovare un senso al proprio operato ed alla propria esistenza?
La risposta sembra essere girare un film d'autore. Un film di denuncia, impegnato, con uno staff e degli attori che sappiano fare il loro mestiere. Sembra, perchè, girala come ti pare, ma alla fine ci si trova sempre immersi in situazioni degne di Basf3. Nevrosi, grigiumi, grettezze orrorifiche, dalle forme molteplici, così radicate da risultare inestirpabili, rassegnanti. Tanto chiaro e diretto quanto forse incomprensibile all'estero. Un film in cui si ride, ma neanche troppo. Circondati come siamo da schiere di panettonate chimiche ed ultracaloriche (che anche senza esserne diretti spettatori in qualche modo passano, micropolveri da sala), non si riesce a concedere alla pellicola molto più di qualche risata storta. Si ride, sì, ma di un riso amaro, perchè d'amarezza è intrisa la storia, in cui la mediocrità appare quasi un lusso e dove anche i suddetti professionisti puzzano di sterco, autocompiaciuti e ridondanti. E Renè in mezzo a questi liquami si sbatte, a colpi di dài, dài, dài, spera ma senza aspettare la provvidenza, ci credefino in fondo, nel cambaimento, e cerca di trasmetterlo a chi lo circonda.
Niente da fare. Ai titoli di coda si arriva senza nessuna rassicurazione. Il messaggio che ci arriva è più un monito che una rassegnazione. Un allarme rosso. Renè è circondato da un mondo che, per quanto inadeguato e avvilente, è ormai preda di un morbo inarrestabile. Per quanto continui a caricare a testa bassa, alla lunga si rende conto anche lui della necessità di togliersi i panni da Don Chisciotte; è di un moderno Robert Neville che si parla, a cui tocca adattarsi alla nuova forma d'evoluzione, d'ipnosi collettiva.
Habemus papam, invece, tratta l'argomento da un altro punto di vista. Se in Boris la massa è obnubilata, passiva, preoccupata esclusivamente del proprio tornaconto, in questo caso ci troviamo davanti a persone in cerca di una guida (più esistenziale che spirituale), di un perno intorno a cui svilupparsi. Ma mentre nel primo film si assiste al tentativo di farsi carico di una qualsivoglia forma di cambiamento, in questo caso ci troviamo di fronte all'impossibilità di trovare qualcuno in gradi di farsi carico di tale compito, che sopperisca a questa mancanza, riempiendo in qualche modo un vuoto sempre più pesante e angosciante. Un'impossibilità dovuta all'inadeguatezza (tema ricorrente nelle opere di Moretti) che pervade ogni personaggio.
Imporporati austeri e ieratici, professionisti dall'infallibile autorevolezza, artisti incastrati in ispirazioni sfiancanti, facce catodiche dalle labbra incespicanti. Ogni figura viene messa a nudo, svestita di ogni corazza o impalcatura traballante usate come maschera.
Moretti compie un lavoro sottile, raffinato, rimanendo per tutto il tempo in bilico tra credibilità e farsa. Scegliendo di non concentrarsi sulle macchinazioni, gli intrighi di palazzo o cattedrale e sui vari giochi di potere che ci si potrebbe aspettare da un enclave, lascia sullo schermo gli aspetti più intimi e fragili di ogni personaggio. Non solo il papa designato, che in realtà, grazie ai dubbi e alle paure che lo attanagliano, è l'unico a compiere un percorso di evoluzione personale, ma tutti quelli che lo circondano, davanti alla frattura del consueto, del prestabilito, si ritrovano nudi, spaesati, costretti a non esser altro che ciò che sono intimamente: persone stanche, in attesa di; ognuna carica delle proprie miserie e del proprio egoismo.
Dai cardinali indifferenti alla crisi in corso e più interessati a visitare Roma (e quando ci ricapita?) o ad arrivare al mattino successivo senza carichi esagerati di angosce, magari con l'aiuto di psicofarmaci vari; ai professionisti della psiche, troppo avvinghiati alle proprie ossessioni per riuscire a vedere e sentire veramente chi gli sta di fronte. Tutti paiono sopravvivere, tirare avanti all'interno di un'enorme bolla di niente, affollata solamente da una moltitudine di pensieri e parole che si sovrappongono senza mai riuscire ad incontrarsi.
La folla attende in piazza, fissando un balcone vuoto in attesa, se non di un messia, almeno di un traghettatore che ne rinnovi la fede, le speranze, riportando serenità alle proprie esistenze.
Qualcuno ha criticato il film definendolo un buon ritratto umano la cui pecca è la mancanza di fede, in realtà presente non solo nei brevi siparietti misterico-illuministi, ma data per scontata in ogni cardinale. C'è comunque una contraddizione nella critica: la convinzione di non poter far coincidere religiosità ed umano. Il film di Moretti, a mio avviso, è tra i più religiosi che abbia mai visto (se si considera l'etimologia del termine re-ligo), non si parla di fede direttamente, è vero, ma solo perchè al regista non interessa fare una critica del sistema clericale.
Niente da fare. Ai titoli di coda si arriva senza nessuna rassicurazione. Il messaggio che ci arriva è più un monito che una rassegnazione. Un allarme rosso. Renè è circondato da un mondo che, per quanto inadeguato e avvilente, è ormai preda di un morbo inarrestabile. Per quanto continui a caricare a testa bassa, alla lunga si rende conto anche lui della necessità di togliersi i panni da Don Chisciotte; è di un moderno Robert Neville che si parla, a cui tocca adattarsi alla nuova forma d'evoluzione, d'ipnosi collettiva.
Habemus papam, invece, tratta l'argomento da un altro punto di vista. Se in Boris la massa è obnubilata, passiva, preoccupata esclusivamente del proprio tornaconto, in questo caso ci troviamo davanti a persone in cerca di una guida (più esistenziale che spirituale), di un perno intorno a cui svilupparsi. Ma mentre nel primo film si assiste al tentativo di farsi carico di una qualsivoglia forma di cambiamento, in questo caso ci troviamo di fronte all'impossibilità di trovare qualcuno in gradi di farsi carico di tale compito, che sopperisca a questa mancanza, riempiendo in qualche modo un vuoto sempre più pesante e angosciante. Un'impossibilità dovuta all'inadeguatezza (tema ricorrente nelle opere di Moretti) che pervade ogni personaggio.
Imporporati austeri e ieratici, professionisti dall'infallibile autorevolezza, artisti incastrati in ispirazioni sfiancanti, facce catodiche dalle labbra incespicanti. Ogni figura viene messa a nudo, svestita di ogni corazza o impalcatura traballante usate come maschera.
Moretti compie un lavoro sottile, raffinato, rimanendo per tutto il tempo in bilico tra credibilità e farsa. Scegliendo di non concentrarsi sulle macchinazioni, gli intrighi di palazzo o cattedrale e sui vari giochi di potere che ci si potrebbe aspettare da un enclave, lascia sullo schermo gli aspetti più intimi e fragili di ogni personaggio. Non solo il papa designato, che in realtà, grazie ai dubbi e alle paure che lo attanagliano, è l'unico a compiere un percorso di evoluzione personale, ma tutti quelli che lo circondano, davanti alla frattura del consueto, del prestabilito, si ritrovano nudi, spaesati, costretti a non esser altro che ciò che sono intimamente: persone stanche, in attesa di; ognuna carica delle proprie miserie e del proprio egoismo.
Dai cardinali indifferenti alla crisi in corso e più interessati a visitare Roma (e quando ci ricapita?) o ad arrivare al mattino successivo senza carichi esagerati di angosce, magari con l'aiuto di psicofarmaci vari; ai professionisti della psiche, troppo avvinghiati alle proprie ossessioni per riuscire a vedere e sentire veramente chi gli sta di fronte. Tutti paiono sopravvivere, tirare avanti all'interno di un'enorme bolla di niente, affollata solamente da una moltitudine di pensieri e parole che si sovrappongono senza mai riuscire ad incontrarsi.
La folla attende in piazza, fissando un balcone vuoto in attesa, se non di un messia, almeno di un traghettatore che ne rinnovi la fede, le speranze, riportando serenità alle proprie esistenze.
Qualcuno ha criticato il film definendolo un buon ritratto umano la cui pecca è la mancanza di fede, in realtà presente non solo nei brevi siparietti misterico-illuministi, ma data per scontata in ogni cardinale. C'è comunque una contraddizione nella critica: la convinzione di non poter far coincidere religiosità ed umano. Il film di Moretti, a mio avviso, è tra i più religiosi che abbia mai visto (se si considera l'etimologia del termine re-ligo), non si parla di fede direttamente, è vero, ma solo perchè al regista non interessa fare una critica del sistema clericale.
Arrivati ai titoli di coda, resta il messaggio di un uomo che, dopo essere sceso tra la gente e aver osservato il mondo di cui dovrebbe farsi guida, la vita che lo circonda e caratterizza, riesce a trovare il senso della propria, si reintegra, mostrandosi in tutta la sua inadeguatezza a chi aspetta di potersi affidare a lui.
Nessuno dei due film pretende di dare delle risposte, di condurci verso Verità Assolute. Non è loro compito indicare chi o cosa seguire. Sono pieni di amarezza e malinconia, è vero, ma anche di spunti di riflessione, non solo sul nostro quotidiano.
Abbiamo davvero ancora così bisogno di trovare qualcuno che ci conduca? E' così difficile spezzare l'assuefazione da byt?
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