sabato 4 giugno 2011

"The tree of life" di Terrence Malick

Continuo a convincermi sempre di una cosa: amo il cinema ma odio i cinema. Potrà sembrare una sottigliezza grammaticale, una forma radicata di insofferenza paranoide e antisociale, ma in certe situazioni mi piacerebbe esistessero sale composte da cubicoli semichiusi e ovatatti, insonorizzati a tutti i suoni estranei a quelli della pellicola in corso e in grado di permettere la visione del solo schermo. Spazi autistici in cui rinchiudermi, perdendomi nel buio della sala.
Deliro? Forse, ma durante la prima parte dell'ultimo film di Terrence Malick, un intreccio di immagini a metà tra Genesi e creazione corale stile Silmarillion talmente ben realizzato da far cadere in trance estatiche degne di Infinite Jest (il film della storia non il libro stesso), avrei volentieri fatto a meno di una buona fetta di presenti in sala. Sbuffi e scatti d'insofferenza crescente, sbadigli commenti risate a non basso volume del tipo machecazzocistoafarequi? si sono più volte frapposti tra me ed il fluire d'immagini e suoni che il regista è riuscito a inanellare con una capacità che sfiora il trascendente. Fortunatamente senza spezzare più di tanto il godimento sensoriale in cui mi sono ritrovato per una buona ventina di minuti. Resta il fatto che quando davanti agli occhi si alternano le viscere della terra e del tempo,  i frutti più distruttivi e vitali della creazione, di cui viene dato un assaggio impensabile, non è piacevole staccarsene per dedicarsi a pensieri da pseudoantropologo verso chi ci circonda, pieni di voglia di picchettare sulle varie spalle per dire qualcosa del tipo: "hey, anche se hai pagato il biglietto non sei obbligato a rimanere qua, va mò a fer di pugnatt da un'altra parte".

In fondo, però, capisco che la colpa di tutto questo non sia da attribuire a tutti coloro che sono entrati in sala così colmi di speranze, ma di coloro che hanno parlato così bene di questo film, magnificandolo come un'opera assolutamente da non perdere senza preparare minimamente lo sprovveduto spettatore poco informato. Spesso si va a vedere un film in base ai trailer, alle recensioni o ai sentito dire (per non parlare degli attori presenti o del regista, che però in questo caso è praticamente sconosciuto ai più, avendo partorito cinque film in quarant'anni) con un a base apparente più o meno solida di idee sul prodotto che ci si appresta a "consumare". Da un lato abbiamo lo spettatore che sa già cosa aspettarsi e non vede l'ora di confermare tali aspettative, dall'altro quello che fa salti di gioia quando si accorge che la trama pregustata nelle anticipazioni è totalmente differente dalle sorprese che riserva l'opera intera.
Appunto, la trama... cosa succede quando è proprio la trama a mancare? O meglio, quando si fa più eterea, sottile, sfilacciata, persa dentro un fiume di suggestioni, di narrazioni emotive, in cui non è la parola a contare ma lo svolgersi naturale del racconto? Quale può essere la reazione in chi guarda? Quanti possono avere reale intenzione di abbandonarsi a tale flusso? Per più di due ore, oltretutto?

L'ultima fatica di Malick è qualcosa a cui bisogna essere preparati, difficile da raccontare. Si attraversa una foresta di simboli, concetti e contenuti arcaici, profondi che scuote e commuove lo spettatore. Con la noia sempre pronta a saltar fuori e ghermirlo.
Il regista prova ad attraversare l'intero creato, l'esistenza tutta con più di due ore di immagini di rara bellezza partendo dalla rielaborazione della storia personale del protagonista, Jack. La parte per il tutto, si potrebbe dire. Il riaffiorare di un dolore passato lo porta ad estraniarsi, a perdersi nella storia universale prima ed in quella personale poi. E' il primo aspetto controverso del film, uno spacco netto che lo divide in due parti solo apparentemente inconciliabili. Il film corre, con ritmo incalzante, non lasciando il tempo per assimilare l'enorme quantità d'immagini e parole che investono lo spettatore. Nella sua composizione, ogni frase o passaggio è inestrapolabile, difficile da decontestualizzare, così immediato ed effimero da far sfiorare la vertigine. Servirebbe una pausa per cogliere tutte ciò che si deposita oltre la retina, tra gli interstizi sinaptici, un attimo di riflessione per non lasciare perdere una tale vastità nella corrente.
Invece ogni cosa procede, attraversata da interrogativi flebili, taglienti, tanto stucchevoli quanto realistici, nella loro spontaneità artefatta. Si vaga per più di due ore, spiazzati e distanti. Difficile tenere i capi della storia ben saldi tra le mani. Si ammira tanta esagerata bellezza e perfezione di immagini (nulla sembra essere fuori posto, non c'è spazio per il brutto visto come tale, anche nei momenti più tragici; usciti dal cinema abbiamo ragionato a lungo se sia un pregio o un difetto del film, a ognuno la propria risposta), impreparati alle pieghe imprevedibili che prende la narrazione. Dall'incredula delusione della sala, a metà tra torpore ed estasi, all'apparire di figure preistoriche (fino a quel momento ogni immagine aveva mantenuto una parvenza di realismo non digitalizzato), alla ricerca forzata di un pretesto per ridere (frutto di indigestioni hollywoodiane) davanti alla tortura infantile di un ranocchio.

Ma non è solo la disposizione delle immagini e delle sequenze ad essere un'arma a doppio taglio. Un altro aspetto controverso riguarda il conflitto interiore che attraversa Jack da ben prima della sua nascita. La parte più esistenziale e religiosa, trasversale ad ogni culto o fede, di cui è permeato il film. Tematiche insidiose, difficilissime da analizzare senza ricadere nel banale, nello stucchevole.
Viene spiegato fin dalle prime immagini: esistono due modalità d'essere, di concepire la vita. La via della gloria e la via della natura. Spiritualità ed istinto terreno, (ir)razionale. La capacità d'amore in ogni situazione, anche in quelle potenzialmente più umilianti e sofferenti (da non confondere con apologia del martirio o di ottuso buonismo) contro l'insoddisfazione perenne, spinta vorace e acefala alla dissipazione, all'annullamento, al volere di più del discorso del capitalista.
Malick riesce a trattare queste tematiche spinose solo in parte e la pellicola ne risente, in particolare ogni volta che il regista fa sbandare la religiosità verso la religione, come nella scena in cui la madre indica tra il trasognato e l'inebetito la "casa di Dio" al figlio, o nel finale, in cui viene scelto a mio parere di mostrare più del dovuto, cercando di completare la chiusura del cerchio con scene che aggiungono ben poco ad un'ottima opera e lasciano retrogusto melenso.

Il film forse non è adatto a tutti i tipi di spettatore. Criptico, straniante, difficile da digerire, ma sicuramente da provare a vedere; meglio se consapevoli della sua atipicità, anche se, a ben guardare il trailer anticipa in buona misura ciò a cui si va incontro.
Tra i migliori film visti ultimamente. La voglia di rivederlo si fa già sentire.


[aggiungo a posteriori il link ad un post di Giuseppe Genna, film che, usciti dalla sala, è più volte saltato fuori come termine di paragone. Quello che dice Genna sull'opera di Kubrick s'interseca alla perfezione con alcuni aspetti del film di Malick]

3 commenti:

  1. le due vie sono grazia e natura, non gloria e natura, secondo la mia interpretazione rappresentano la lotta interiore tra la madre (la via della grazia) e il padre (la via della natura).
    la voce fuori campo era della tonalità e del timbro perfetti per l'atmosfera del film. inoltre, proprio il fatto di non riuscire a spiegare razionalmente tutte le immagini che investono lo spettatore lascia dentro un senso di angoscia e di mistero quasi impossibile da comunicare, complimenti per la descrizione comunque, non ci sarei mai riuscita, hai espresso alcune parti chiave del film, tuttavia descriverlo resta comunque riduttivo, il film apre un orizzonte di interpretazioni e riflessioni sconfinato e indescrivibile, ma questo è solo il mio modesto parere.
    grazie
    Ale

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  2. Scusa il ritardo nella risposta, mi accorgo solo adesso del tuo commento.
    e' vero, si parla di grazia, non di gloria e i due genitori dovrebbero rappresentarle in pieno per il figlio, secondo me è proprio questa dicotomizzazione, questo eccesso didascalico, uno dei punti deboli del film, in particolare nel personaggio materno.
    Concordo con te, il film è pressocchè indescrivibile, il mio commento (così come molti altri) voleva essere un riassunto di suggestioni personali, un lanciare un amo per invogliare passanti casuali ad andare a vederlo o a parlarne. Alla fine un po' ci sono riuscito ;-)

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